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Cosa ci faceva lì "il meccanico di Nichelino"

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A Torino fino al 25 febbraio 2024 le Sale Chiablese (ingresso sulla sinistra della piazza di fronte al Palazzo Reale) ospitano la mostra

“AFRICA - Le collezioni dimenticate”, a cura di Elena De Filippis, Enrica Pagella e Cecilia Pennacini. L’evento, ideato e prodotto dai Musei Reali di Torino, con la Direzione Regionale Musei Piemonte e il Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino, espone manufatti, recentemente restaurati o comunque salvati dall’oblio.

Merita di essere visitata questa mostra, al di là dei pur interessanti aspetti storici e culturali, perché consente di capire qualcosa in più sui drammi attuali che attanagliano l’Africa. Sono situazioni che affondano le radici in quell’epoca coloniale che vide protagoniste le nazioni europee. Tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento anche l’Italia partecipò a questa corsa per conquistarsi un “posto al sole”: in Libia, in Somalia, in Eritrea, in Etiopia.  L’ambizione di portare in quei posti “civiltà e progresso” cedette presto il passo a sistematiche azioni predatorie delle risorse africane e a spietate politiche di sfruttamento delle popolazioni indigene.

In Congo per cinismo, rapacità e crudeltà si distinse il Belgio. Non mancarono però pagine vergognose per l’Italia, per la monarchia sabauda e poi per il fascismo, che per stroncare la resistenza armata dei locali non esitò ad utilizzare persino armi chimiche macchiandosi di crimini contro l’umanità. Come le leggi razziali o la precipitosa fuga di re Vittorio Emanuele III dopo l’8 settembre del ’43, così anche le orrende e disastrose “imprese” africane dei generali Pietro Badoglio (“come falco giunse”) e Rodolfo Graziani non vanno rimosse e dimenticate.

Il percorso della mostra allestita a Torino si snoda attraverso diverse sezioni. La prima “Italiani in Africa: esploratori, avventurieri e consoli” parte da Giacomo Antonio Brun Rollet, esploratore delle sorgenti del Nilo in Sudan. Vi è poi il capitolo specificatamente dedicato alla “Spartizione dell’Africa e all’aggressione coloniale”. Un’altra sezione ripercorre la spedizione del Duca degli Abruzzi e di Vittorio Sella sul massiccio del Rwenzori.
 

UN NICHELINESE IN CONGO

Focalizzata sul periodo a cavallo tra fine ‘800 e inizio ‘900, la sezione “Le vie dello sfruttamento: ingegneri in Congo” pone in primo piano le figure di alcuni tecnici piemontesi come Pietro Antonio Gariazzo, Carlo Sesti, Tiziano Veggia che parteciparono alla realizzazione di alcune infrastrutture, in particolare una ferrovia, alle dipendenze dell’amministrazione coloniale belga in Congo.

Non manca un nichelinese: Stefano Ravotti di professione “tornitore armaiolo meccanico”, come risulta in una lettera dell’epoca su carta intestata della Compagnie du Chemin de Fer du Congue.

Venticinque anni di età, nato nel 1875, cosa ci faceva il “meccanico di Nichelino” in Congo alla fine dell’Ottocento?

A lui è dedicato un pannello della mostra: “Ravotti lavora a Matadi ed è tra i moltissimi italiani impiegati nelle ferrovie e nell’amministrazione dell’allora Stato indipendente del Congo, violentemente controllato da Leopoldo II del Belgio. Grazie all’intermediazione di suo fratello Vittorio, dipendente dell’Armeria Reale, Stefano riesce a vendere al museo, per 551 lire (n.d.r. valore odierno circa 2.500 euro), la sua collezione di armi nell’estate del 1900”.  

Coltelli, spade, lance, pugnali: non è dato sapere come il giovane meccanico di Nichelino si fosse procurato tutto quell’armamentario che comunque entrò ufficialmente a far parte del patrimonio del museo torinese con l’approvazione dell’allore direttore conte Paolo d’Oncieu de la Bâtie e del ministro della Real Casa, Emilio Ponzio Vaglia.

La città di Matadi si trova nell’estremo sud ovest del Congo, al confine con l’attuale Angola, quasi alla foce del fiume Congo ed è una città portuale pur trovandosi a circa 150 chilometri dall’oceano. Il nostro concittadino prese parte alla costruzione della ferrovia che collegò Matadi a Leopoldville, l’odierna Kinshasa, la capitale, che dista 300 km.

Dopo la vendita del lotto di armi al museo torinese, nell’estate del 1900 (funestata dall’assassinio di re Umberto I a Monza per mano dell’anarchico Bresci), il Ravotti sperava di rientrare in Italia di lì a pochi mesi, ma così non fu. Secondo le notizie riportate dell’interessante e minuzioso catalogo della mostra (Editris edizioni ), il Ravotti si trovava ancora in Congo nel 1903. Fece arrivare infatti un ricordo alla Regina Margherita che gli rispose domandando se come ringraziamento preferisse una somma di denaro o un piccolo gioiello. Lui optò per il gioello e colse pure l’occasione per chiedere se per caso in Italia ci fosse un posto da chauffeur, cioè da autista, ma gli venne risposto picche. Pare che nello stesso anno il nostro avesse tentato di piazzare altre armi della sua collezione, ma questa volta la vendita non andò in porto. Forse fece un po’ di carriera, perché in altra corrispondenza lo troviamo citato con la qualifica di “capo-tornitore”.

Rientra in Italia nel 1906 e poi le tracce del “meccanico di Nichelino” si perdono. Ricompare dopo un po’ a seguito di un curioso fatto di cronaca nera, riportato dal quotidiano La Stampa nel dicembre del 1920. Il titolo: “Un avventuriero va in automobile da Torino a Milano e tenta di ammazzare lo chauffeur”. Ebbene Stefano Ravotti era l’autista, il passeggero/avventuriero era tal Gino Dellorna che però - sostennero i giornali del tempo – viaggiava sotto falso nome.  Non si capisce bene cosa accadde al povero taxista in quel frangente, forse un’aggressione con tentativo di rapina finita male. Fatto sta che il Dellorna venne arrestato; il Ravotti, ferito, finì all’ospedale, ma quanto meno ora sappiamo che aveva raggiunto il suo obbiettivo di fare lo chauffeur. Nel 1931 riceve una sorta di onorificenza per l’attività prestata in Congo. Nei primi anni ’30 si trasferisce con la famiglia in Francia a Cannes e poi a Nizza. Risulta però deceduto a Torino nel 1950.  

M.C.