Le prime avvisaglie della “cultura woke” si ebbero anche in Italia ormai qualche decennio fa, quando, in nome del politicamente corretto,
si cominciò a far ricorso in campo linguistico a giri di parole per sostituire termini ritenuti offensivi o comunque non consoni.
A mano a mano che la si usa e il tempo passa, la lingua si trasforma e si evolve in modo naturale, ma qualche volta sono gruppi di pressione in svariati settori o correnti di pensiero a cercare di modificarla. “Woke” in inglese letteralmente significa “sveglio” e parte dalla rivendicazione di diritti su diversi temi talvolta completamenti slegati tra loro oppure in qualche modo connessi da elementi di discriminazione: genere, razza, educazione e cultura, aspetto fisico, abitudini alimentari, colonialismo, sessualità, migrazioni, minoranze e appunto linguaggio.
La “cultura woke” parte dal presupposto che la Storia è espressione di chi detiene il potere economico e quindi politico. Negli ultimi secoli questa posizione dominante è stata esclusivo appannaggio dell’Occidente, riassumibile nella formula del “privilegio bianco” che quindi va sradicato. Si tratta quindi di rimuovere dalla memoria ogni traccia di questo predominio, vero o presunto, demolendo monumenti, impedendo la lettura di libri o modificandoli e cancellando dal web ogni espressione che richiami questo passato. Nel mirino sono finiti persino i classici latini e greci, fino a Shakespeare e tanti altri autori recenti. Così come gli estremisti della “cultura woke” chiedono di smantellare interi musei.
Non di rado si tratta appunto di operazioni linguistiche. In Francia per esempio è stato recentemente ristrutturato il grande Museo Vincennes delle Colonie di Parigi in cui per un secolo venne celebrata l’opera “colonizzatrice e civilizzatrice” della civiltà francese. Ora si chiama “Museo dell’immigrazione”, il materiale esposto resta più o meno lo stesso, ma sono stati cambiati parecchi pannelli esplicativi.
In Francia una ventina di anni fa è stata creata a tavolino la cosiddetta “scrittura inclusiva”, con una serie di artifici lessicali - per la verità non sempre chiari e migliorativi - allo scopo di eliminare forme di discriminazione. Di qui sono scaturite varie dissertazioni sui pronomi, sulle vocali finali delle parole, sull’uso dello o della schwa e sui maschili plurali onnicomprensivi.
L’obbiettivo è smantellare “le strutture di razza, di genere, dell’eteropatriarcato e di classe costitutive e connesse con il capitalismo globale e la modernità occidentale”.
E però bisogna stare attenti. Non è che questa “cultura woke” altro non è a sua volta che una nuova forma di censura, addirittura preventiva?
Cfl