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Un popolo che ha perso la capacità di relazione

Etica
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- di don Mario Aversano -

L’ultimo rapporto del Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia (Cisf) «La famiglia nella società post-familiare» riassume nel titolo la condizione del nostro tempo:

l’esperienza della famiglia risulta progressivamente meno centrale nell’attuale contesto storico. La società può essere ragionevolmente definita post-familiare in quanto pone maggiore attenzione al benessere dei singoli individui, come se potessero essere considerati indipendentemente dalla consistenza e dalla qualità dei legami affettivi e delle relazioni comunitarie. La raccolta di questi dati prescinde da una definizione specifica di famiglia. Nel dibattito culturale sulla pluralità dei modelli (per cui molti commentatori preferiscono parlare di famiglie – al plurale – per sottolineare l’impossibilità di riferirsi esclusivamente alla struttura della cosiddetta «famiglia tradizionale») sembra talvolta sfuggire il dato più eclatante: diminuisce progressivamente in Italia il numero e l’ampiezza delle famiglie (nel senso più estensivo ed inclusivo del termine). A dicembre 2019 la fotografia era la seguente: il 60,9% delle famiglie italiane ha al massimo due componenti (in tutte le possibili declinazioni: coppia, genitore con figlio, altri gradi di parentela). Le famiglie che hanno più di quattro componenti sono ridotte al minimo (4,8%). Prevale la famiglia che si identifica con la coppia (31,7%).

«Nell’arco di vent’anni il numero medio di componenti in famiglia è sceso da 2,7 (media 1996- 1997) a 2,4 (media 2016-2017). A dicembre 2019, una “famiglia” su tre è single. Per 100 morti sono nati 69 bambini. La popolazione italiana quindi diminuisce nel saldo naturale e si colloca tra le più anziane al mondo». Volutamente questa nostra analisi tiene in sospeso i dati del 2020: è evidente che la lunga stagione pandemica – ancora in corso – non abbia potuto che aumentare la sofferenza di tutto il sistema. D’altra parte, l’attuale situazione è frutto di un lungo processo determinato da una pluralità di fattori (economici, sociali, politici e culturali) e una possibile inversione di tendenza avrebbe bisogno di importanti interventi da parte di tutti gli attori in gioco (istituzionali e non) permettendo un cambiamento di scenario soltanto sul medio e lungo termine. Lasciando ad altri osservatori il compito di analizzare quali politiche a favore del lavoro (e specificamente la questione dei diritti delle donne) e della famiglia (assegni familiari, asili nido, ecc.) possano offrire le condizioni necessarie per costruire un progetto di vita, mi sento interrogato dalla domanda di senso e di futuro che continua ad abitare il cuore delle persone e dei giovani in particolare.

La ricerca, infatti, non conferma il luogo comune sul presunto disinteresse dei giovani verso i legami familiari. Nonostante lo studio del Cisf metta in evidenza che la metà dei giovani intervistati (fascia 25-35 anni) usi la parola “famiglia” in modo indifferenziato (intendendo qualsiasi genere di relazione, amici compresi), emerge un valore fortemente positivo dell’esperienza familiare in senso simbolico, affettivo ed etico: «il punteggio medio sull’indice che misura la rappresentazione della famiglia come valore positivo e una risorsa per l’individuo e la società, su tutto il campione, è di 7,7 su 10». Tale giudizio positivo si fonda su due poli. Da una parte i giovani sanno di poter contare moralmente e materialmente sulle proprie famiglie di origine; dall’altra, essi rivelano un’importante propensione sia a generare figli che a sposarsi, soprattutto tra gli intervistati nella fascia 20-25 anni, con una certa prevalenza tra i giovani di genere maschile. Dunque, per semplificare con un caso, a 22 anni un ragazzo riesce a “vedersi trentacinquenne sposato e con figli” molto più di una persona di 32 anni che osserva con maggiore pessimismo il futuro e sente scemare il desiderio di generatività sia biologica che sociale.  La ricerca sembra suggerire che, con il passare degli anni, le persone percepiscono il futuro meno affidabile e promettente. Ciò dissuaderebbe dall’osare scelte e investimenti personali sia nella costruzione di una propria famiglia che nella partecipazione attiva alla vita della propria comunità. Ci sarebbe dunque una partenza verso le proprie aspirazioni che nella stagione della prima giovinezza andrebbe maggiormente agevolata economicamente e culturalmente. A guardarla in senso costruttivo, come potrebbero le nostre comunità lasciarsi interpellare dal desiderio di vita che attraversa la coscienza dei più giovani? Che cosa potremmo chiedere a loro per ridestare il desiderio di legami familiari e di comunità in una popolazione adulta che ha spesso smarrito la visione del futuro?

Don Mario Aversano