- di don Riccardo Robella -
Quando, nei mitici anni ’80, da ragazzi, pensavamo al futuro, noi giovani degli anni ’60 e ’70 dovevamo capire solo dove e come collocarci.
Quale lavoro avremmo svolto per il resto della nostra vita? Chi sarebbe stato il nostro marito o la nostra moglie? Avremmo cresciuto dei figli, fino a che non fossero diventati adulti e, finalmente, dopo anni di lavoro ci saremmo goduti la meritata pensione, magari nella casetta al mare comperataci da papà e mamma.
In realtà non è proprio così, perché in quegli anni cominciava timidamente a farsi avanti un’idea che oggi sembra normalità, e cioè che il posto fisso poi così fisso non era, che “l’amore è eterno finché dura” ed i legami familiari non erano così indissolubili come il prete ci aveva sempre insegnato.
Insomma, nella nostra cultura aveva fatto capolino ciò che un sociologo polacco, Sigmund Bauman, avrebbe definito in quegli anni la “modernità liquida” …
Cambio di paradigma esistenziale. La definizione dell’uomo non si sarebbe più data in base alla sua stabilità, ma la persona sarebbe stata vincente se capace di mutare, di cambiare, di evolversi continuamente. D’altronde cambiava la tecnologia (si tratta di anni di profonda evoluzione tecnologica, dalla TV in bianco e nero a quella a colori, dal Geloso al CD e tanto altro), mutava il mondo, si aprivano nuove prospettive, e tutto sarebbe andato per il meglio.
Il risultato? Quella che oggi chiamiamo precarizzazione. E certo, perché quando il progresso diventa l’unico criterio di guida di una società, rischiamo di pensare che ogni mutamento sia di per sé buono. Il cambiamento sociale implica anche un cambiamento nel modo d’intendere il lavoro che, dovendosi sempre adattare alle situazioni nuove, non può permettersi di rimanere indietro. Il risultato, però, è che chi non ce la fa resta irrimediabilmente indietro, costretto a reinventarsi un’occupazione, magari non avendone neppure la capacità.
Ancora più preoccupante è il fatto che, senza quasi accorgersene, cambia anche l’uomo, nel suo modo d’intendere la vita, l’amore, la percezione di sé. In fondo, tutta la nostra fatica è sempre stata rivolta ad arrivare ad un punto fermo, un equilibrio nella vita; ma se, tutto d’un tratto, vengono tolti i paletti a cui ci si appoggia (e il lavoro e la stabilità familiare sono due paletti fondamentali, perché ci definiscono nel nostro essere uomini e donne), e se persino quel punto fondamentale che è il nostro appartenere ad una dimensione che ci supera viene smantellato, allora ci trasformiamo da pellegrini in vagabondi. Sì, perché il pellegrino quando viaggia è precario, ma ha una meta, un approdo al quale sa di giungere, ha uno scopo. Il vagabondo invece non sa di dove viene né conosce la sua destinazione; in questo è disincentivato dal cercare una strada e si trova a vivacchiare.
Ecco, il rischio della precarizzazione è quello di accontentarci di gustare le briciole che la vita (o i potenti che la determinano) ci dà nella sua finta magnanimità, vagando da un momento all’altro, da una sensazione all’altra, nell’illusione di riempire il vuoto d’esistenza che ci attanaglia.
Forse è il caso di ripartire dal nostro cuore, dal rapporto vivo con Gesù, per tornare ad essere pellegrini, anzitutto come persone e chissà, magari un giorno la somma dei nostri pellegrinaggi riporterà il mondo alla sua realtà più profonda, quella di chi non cerca esclusivamente il proprio profitto, ma la giustizia. Allora avremo una vera evoluzione, somma del cambiamento rispettoso della stabilità delle persone. Utopia? Forse, ma ricordiamo sempre che ciò che è impossibile per l’uomo è possibile per Dio… basta che Gli diamo una mano!
Don Riccardo Robella
Parroco