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Dom, Dic
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"Vi racconto la mia lotta per uscire dal covid"

Etica
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“Racconteresti la tua storia?”. La domanda arriva, leggera, dalla redazione di Nichelino Comunità. La mia storia è quella di tante altre persone, che non avrebbero voluto viverla e ora, ogni giorno, cercano di accettarsi.

Scrivendo per i giornali ho raccontato tante vite. Perché non raccontare questa?

Sei mesi, due notti, un’altra vita!

Sono passati sei mesi dalla notte in cui è morta la mamma, sei mesi da quella seconda notte in cui, all’ospedale Santa Croce di Moncalieri, mi hanno chiesto di chiamare casa, per dire che mi avrebbero sedata, intubata e trasferita in rianimazione.

Non ho avuto paura, solo perché non ho capito che quella poteva essere l’ultima volta che sentivo una voce amata. Polmonite da covid19: lo spettro che ha cambiato le nostre vite, quelle di chi l’ha subito, in prima persona o attraverso qualcuno che ama, di chi l’ha solo sentito passare accanto, di chi ha dovuto adeguarsi a una vita diversa, senza abbracci, senza leggerezza, senza il mondo che è rimasto fuori casa.

Di quei giorni senza memoria resta il ricordo di un corpo che non ti appartiene, di un desiderio inesauribile di acqua, delle allucinazioni da farmaci, della solitudine che non ti lascia mai, delle persone che se ne sono andate accanto a te, senza che chi le ha amate le abbia potute rivedere. Resta lo sgomento, quando ti scopri a chiedere: “Signore, perché?”. Ma poi ti scopri a pensare: “Signore, grazie!”.

Grazie, per le voci e i volti che arrivavano da casa, per le amiche e gli amici di sempre e sempre presenti, per tutti quelli che hanno pregato e pensato a me, per i messaggi pieni di energia, per la spinta a vivere con cui mi hanno accompagnata, ogni momento, senza tregua, perché non potessi dubitare che ce l’avrei fatta. Grazie per l’amore che mi ha travolta e mi circonda.

Grazie per quella luce, di chi era appena andata via e mi è rimasta accanto.

Grazie per chi ho trovato vicino, che si è preso cura di noi, perché forse mai come allora medici, infermieri, operatori sanitari, addetti alle pulizie delle camere, hanno considerato le persone e non i pazienti, la cura e non la malattia. Grazie per le telefonate quotidiane che facevano alla mia famiglia, per la competenza e, forse, l’audacia nel cercare una terapia e per quei minuti che i medici consumavano al mio fianco, per una battuta, un’esortazione, una spiegazione in più, che rassicurasse. Grazie a chi ogni mattina ha “coccolato” quel corpo stremato dall’inattività, dimostrando che era ancora una persona e non un guscio inabile. Grazie per chi ogni giorno tendeva le lenzuola, perché anche una piccola piega è un tormento dopo settimane di letto. Grazie per i sorrisi e gli sguardi, per il tempo regalato di fronte a una lacrima di sconforto e per le parole di chi, nel caldo di un aprile da tarda primavera, ha combattuto senza tregua, avvolto in camici, mascherine, visiere, guanti di gomma, che non arrivavano mai o non erano mai abbastanza.

Grazie per i nomi scritti sui camici per farsi riconoscere e per le storie che ho scoperto: di medici già incontrati e che lì, così bardati, non avrei identificato; di infermieri arrivati da altre città, che cercavano di sapere qualcosa del loro nuovo quartiere senza poterlo visitare; di infermiere con esperienza in rianimazione, normalmente impegnate in servizi dell’Asl privi di rischi, che da un giorno all’altro si sono trovate destinate ai reparti covid in ospedale e hanno pianto, allontanando da casa marito e figli piccoli, per paura di contagiarsi e contagiarli.

Grazie per lo sguardo raggiante dell’infermiera che mi ha portato, per due volte, l’esito negativo del tampone, che era “scritto” nei suoi occhi e nei suoi gesti, prima ancora che nelle sue parole… E che mi ha accompagnata, barcollante, alla porta, tra i saluti e i sorrisi di chi era di turno in reparto, sorrisi e occhi lucidi come quelli che, due settimane prima, mi avevano “spinta” fuori dalla rianimazione… Io, la prima paziente con coronavirus che lasciava quel reparto d’emergenza, con la speranza di tornare a casa.

Sono stata una sfida, che hanno vinto. E ho vinto anch’io!

Oggi è un lungo cammino, di fatica, di sorrisi tra le lacrime, di recupero fisico e di revisione. Il “dopo” è riordino: delle emozioni, delle idee, dei progetti, di questa “altra” vita.

Di fronte a chi crede che tutto questo non esista, mi volto a guardare quei giorni senza memoria e cerco di non dimenticare.

Cristina Nebbia