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Le nuove parole servono, ma non bastano

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Sul tema disabilità si stanno concentrando tutta una serie di nuove norme anche a seguito di quanto previsto dalla Missione 5 del PNRR.

Innanzitutto la Legge n. 227 del 20 dicembre 2021, con la delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di disabilità. Questa ha poi partorito tre decreti attuativi concernenti rispettivamente:

1) norme per garantire l’inclusione e l’accessibilità (Decreto Legislativo 222/2023;

2) l’istituzione dell’Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità (Decreto Legislativo 20/2024);

3) la definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato (Decreto Legislativo 62/2024).

Ci focalizziamo qui sulle nuove disposizioni che concernono la terminologia da utilizzare. Si tratta di un passaggio dalla vecchia terminologia, oggi valutata come intrisa di stigma e pregiudizio, ad una nuova forma di espressione che vede invece prima la persona e poi la sua condizione.

Sono pertanto abrogati termini come “handicappato” o “disabile”, usati per descrivere una condizione di inferiorità, ricordando che prima di tutto si è persone, con una capacità giuridica, diritti ed aspirazioni, come tutti gli altri.

In concreto, dunque, a partire dal 30 giugno 2024 non si può più utilizzare la parola «handicap»; ovunque essa ricorra è da sostituire con «condizione di disabilità».

Così come sono da bandire: «persona handicappata», «portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e finanche la “finezza” «diversamente abile». Tutte da sostituire con «persona con disabilità».

La nuova terminologia tocca anche le parole: «con connotazione di gravità» e «in situazione di gravità», che sono sostituite da: «con necessità di sostegno elevato o molto elevato».

Mentre le parole «disabile grave», sono sostitute da «persona con necessità di sostegno intensivo».

Sulla carta dunque è un importante cambiamento linguistico, che comunque influenza la percezione della realtà. Un cambio di prospettiva che allontana da connotazioni negative. Insomma, si rimette al centro, almeno formalmente, la dignità della persona.

Auspichiamo che questo cambiamento non sia solo di un’operazione di facciata o di un mero aggiornamento lessicale, ma vada di pari passo con il pieno riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità.

Per questo obiettivo occorre l’impegno di tutti e, in primis, delle organizzazioni di tutela dei diritti, soprattutto a favore delle persone con disabilità intellettiva/autismo. Sono queste le persone più deboli all’interno di una categoria già debole, in quanto – a differenza delle persone con disabilità di tipo fisico o sensoriale – si tratta in genere di persone incapaci di autodifendersi, di protestare e di fare sentire autonomamente le proprie ragioni.

Cambiare nome costa nulla, ma è l’inizio. Di fatto occorrerà agire per cercare di cambiare la mentalità collettiva e per eliminare le barriere, non solo fisiche, ma anche culturali, che ostacolano i loro interessi.

Il rischio è che le nuove parole rimangano un semplice atto di ipocrisia formale, se non accompagnate da politiche attive di inclusione, di rispetto dei diritti e da un lavoro capillare di sensibilizzazione.

Giuseppe D'Angelo

UTIM Nichelino