Il libro di Giobbe (ebraico Iyob) nelle nostre Bibbie lo troviamo dopo la raccolta dei Salmi nella collezione che noi chiamiamo “Libri Sapienziali”.
La Bibbia ebraica, dopo la legge e i profeti, presenta una terza raccolta di libri che chiama semplicemente “Ketubim”, cioè gli altri scritti, ed è tra questi testi che troviamo il libro di Giobbe: l’opera che è lunga ben 42 capitoli può essere divisa in cinque parti. La prima sezione è in prosa (cap. 1 e 2) ed è quella che abbiamo presentato la volta scorsa. E’ la parte più antica del libro che presenta la storia di Giobbe, vero credente, colpito da disgrazie ma che nonostante tutto conserva la fede nel Dio d’Israele. La seconda parte, la più corposa (dal cap. 3 al 31), riporta tre dialoghi filosofici e teologici tra Giobbe e tre suoi amici, presentati come tre saggi dell’Antico Oriente. Ognuno di loro ha una propria teoria sul motivo per cui Giobbe è stato colpito dal male e la spiega, ma nessuna di queste delucidazioni soddisfa Giobbe che le contesta. Questi capitoli sono scritti in versi e formano un vero poema che ci indica come nell’antichità si cercasse di spiegare il mistero del male e della sofferenza che colpisce il giusto.
Nella terza sezione si presenta un terzo amico teologo, Eliu (cap. dal 32 al 37), che, ancora in poesia, presenta a Giobbe la sua spiegazione. Questi capitoli sono probabilmente gli ultimi ad essere stati scritti, perché emerge il pensiero teologico del IV secolo a.C.
Insoddisfatto di tutte queste risposte umane Giobbe scaccia gli amici e si appella direttamente a Dio (cap. 38,1 – 42,6). E’ la quarta parte del libro e la voce di Dio si fa udire in un lungo discorso sulla sapienza e provvidenza divina e Giobbe finalmente capisce … che cosa? Il libro non ce lo dice, ma invita il lettore a partecipare alla ricerca, ad arrivare da sé ad una risposta, a scoprire la verità.
La quinta parte, che è la più breve (42, 7-17) è un epilogo in prosa dove al protagonista è restituito quanto ha perduto: salute, figli, ricchezza e onore. Tutto è bene quel che finisce bene, come nelle leggende e nelle favole e nel misterioso piano di Dio dove ciò che è brutto, negativo, malvagio ai nostri occhi ed alla nostra cultura, può trovare un senso e una resurrezione in Lui.
Ma torniamo al racconto di Giobbe, là dove l’avevamo lasciato. E’ solo, in mezzo ad una discarica, malato e disperato, sta in silenzio per 7 giorni. Arrivano i tre amici “per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo” . E finalmente Giobbe reagisce, grida il proprio dolore, maledice la propria situazione: “maledetto il giorno in cui sono nato! Sono diventato un nemico per Dio! Potessi morire al più presto!”.
Ognuno dei tre amici cerca di spiegare a Giobbe ciò che pensa della sua situazione: questi tre dialoghi sono lo specchio del dialogo interiore che ogni uomo fa dentro di sé quando si trova di fronte al dolore e alla sofferenza.
Il primo amico, Elifaz, dice: nessun uomo è senza peccato, quindi anche tu; chissà cosa avrai fatto per meritarti questi castighi, non lamentarti, ma chiedi perdono a Dio!
Il secondo amico, Bildad, rincara la dose: vabbè, ammettiamo che tu sia innocente, ma i tuoi figli? I tuoi antenati? Dio non si sbaglia: tu non sai, ma lui sì; la tua sofferenza è il castigo dei peccati fatti da altri.
Il terzo amico, Tzofer, lo rimprovera per la sua sicurezza: chi sei tu, Giobbe, per indagare sulle vie e le intenzioni del Signore? Abbassa il tuo orgoglio e impara l’umiltà!
La delusione di Giobbe verso i tre sapientoni è evidente. E’ lui che soffre e sono loro a pronunciare discorsi sulla sofferenza. E’ lui ad essere schiacciato dal dolore e sono loro ad imbastire risposte vecchie e tradizionali.
Come se non bastasse entra in scena un quarto attore, Elihou. Il suo discorso è incentrato sul valore formativo della sofferenza: se il dolore ti colpisce, non prendertela con Dio, ma sfrutta l’occasione per convertirti, il male ti purifica.
Anche noi, come Giobbe, abbiamo sentito queste teorie e anche noi, come per Giobbe, non sono bastate. “Io voglio parlare con l’Onnipotente – dice – voglio discutere con Lui!” Vuole aprire un processo, difendere la propria causa, capire il problema della presenza di Dio nella vita degli uomini. E Dio accetta di essere l’imputato dei mali del mondo: il giusto è punito e il criminale ricompensato senza motivo; Dio si disinteressa; è assente; chi gli è fedele è lo zimbello di tutti e il prepotente se la gode.
A questo punto la voce di Dio si fa udire con una serie di domande, “dov’eri tu quando ho creato montagne e venti? Quando ponevo le fondamenta della terra?” E con un lungo discorso sulla sapienza divina che riempie l’immensità del cosmo.
Alla fine Giobbe conclude: “i miei orecchi avevano sentito parlare di te, ma ora i miei occhi ti hanno visto … in confronto a Te sono piccolo, umile, insignificante e fragile”.
L’immagine di Dio ricevuta dal passato si frantuma. Abbattuta questa immagine Giobbe si ritrova con Dio e acquista un orizzonte nuovo di vita per sé e per gli altri.
L’autore offre al lettore tutti gli elementi perché possa dedurre la soluzione scoperta da Giobbe. C’era una volta un uomo leggendario, giusto e generoso che nel dolore trovò il coraggio di affrontare Dio e di obbligarlo a guardare la sua creazione e di parlare agli uomini mostrando il suo vero volto, presentandosi per quello che è, anticipando con la sua vicinanza al sofferente il Dio annunciato secoli dopo dal suo Cristo.
Che resta di Giobbe? L’immagine dell’uomo, un esempio, un confratello nel dolore.
Enrico de Leon