Nella basilica della Natività, a Betlemme, si entra abbassando la testa.
La porticina che si apre tra le possenti mura obbliga ad un atto di riverenza non solo formale. L’entrare penitenti dà la chiave di come si viva oggi in questa terra dilaniata dai conflitti, a testa bassa, con lo sguardo fisso alla nascita, il preannuncio della morte, ma anche la speranza di una resurrezione.
Torna in mente l’icona della natività che Rublev dipinse nel XV secolo. Il bambino nasce già avvolto nelle bende della morte. La mangiatoia in cui giace è in realtà un sepolcro di pietra. Alle sue spalle si spalanca il buio della grotta. Una tenebra così fitta che sembra quasi di sprofondarvi.
È la stessa sensazione che oggi si avverte a Betlemme. Con un processo di pace bloccato, con un muro di separazione, con una guerra che distrugge anche i pensieri di futuro, la vita quotidiana si fa sempre più pesante. Gli spazi di dialogo si chiudono, le soluzioni sembrano lontane e il cuore è sempre più stretto in una morsa. Eppure si continua a vivere, a credere in una luce che, prima o poi, da qualche parte, dovrà pur sorgere.
Qualche giorno fa ho letto una storia che è un esempio di questa fatica, ma anche di questa energia vitale. Anwar ha due figli ed una giovane moglie che studia scienze sociali all’università di Betlemme. Vive nel campo profughi di Aida, il recinto è fatto di cassette affastellate. Ci abitano circa 600 famiglie per un totale di 5mila persone. Quando gli chiedi cosa faccia sorride triste e ti dice che è disoccupato. “Fino al 2000, quando è scoppiata l’intifada, riuscivo a trovare lavoro a Gerusalemme; ogni giorno attraversavo il check point, entravo in città, facevo la mia giornata e la sera tornavo a casa. Non era il massimo, ma portavo lo stipendio, ho potuto sposarmi ho dato da mangiare ai miei figli. Poi tutto fermo”. Anwar in realtà non sta fermo e se nel campo profughi c’è qualche albero lo si deve a lui, perché gli unici alberi li ha dipinti. Cosi tra i truci poster che celebrano i kamikaze sono fioriti i suoi murales, non solo di alberi, ma anche di animali, paesaggi e persone “Altri hanno scelto strade diverse, ma sbagliano: la strada della violenza porta alla morte ed io spero che i miei dipinti ricordino al mondo la nostra sofferenza ed il bisogno di pace”. Anwar racconta del suo piccolo cortile dove c’è un cactus; basta qualche goccia d’acqua a tenerlo in vita, fiorisce raramente, ma quando accade il suo fiore è unico e bellissimo. Proprio come la pace.
Marcello Aguzzi