02
Sab, Nov
95 New Articles

A caccia di cervi nel parco del re

Pillole di storia
Typography
  • Smaller Small Medium Big Bigger
  • Default Helvetica Segoe Georgia Times

Nella Sala degli Scudieri della Palazzina i dipinti settecenteschi del Cignaroli illustrano le fasi salienti di una battuta di caccia al cervo a Stupinigi.

Salta agli occhi l’immenso spiegamento di forze: decine e decine di uomini a cavallo, un corteo di carrozze, centinaia di cani e poi dame, valletti, cocchieri, palafrenieri, inservienti. Un grande cerimonia collettiva alla quale partecipava la corte e uno stuolo di ospiti.

Al di là degli aspetti scenografici la tecnica della “chasse à courre”, praticata nel Settecento nelle riserve reali di Stupinigi e di Venaria, avrebbe certamente fatto inorridire gli animalisti. 

L’operazione consisteva nell’individuare un cervo (rigorosamente maschio), lanciare i cani sulle sue tracce, farlo uscire dalla boscaglia e quindi inseguirlo a cavallo, fino allo sfinimento.

Al mattino, raggiunta la zona prescelta, il corteo dei cacciatori si accampava in una radura e faceva colazione. Intanto un gruppetto di specialisti perlustrava in silenzio i boschi circostanti, con l’aiuto di cani da fiuto, e redigeva l’elenco delle possibili prede. Il re o chi per esso sceglieva il cervo da abbattere.  A questo punto si partiva all’inseguimento dell’animale che si dava alla fuga zizagando tra la fitta vegetazione. Una volta stanato si scioglievano i cani. La corsa raggiungeva il culmine dopo il “debuchèr”, cioè quando il cervo usciva allo scoperto. (N.d.r … di qui l’origine del nome di via del Debouchè ed anche il motivo per cui a Nichelino c’è una via dei Cacciatori).

La fase finale dell’inseguimento era denominata “hallaly”. Completamente circondata, la povera bestia veniva azzannata dai cani o finita all’arma bianca. In chiusura gli si tagliava l’estremità di una zampa destra consegnandola all’ospite più importante.

Un complesso apparato sovrintendeva a tutte le operazioni. Nel periodo d’oro della “chasse à courre”, l’organizzazione era affidata al governatore di Stupinigi che era il anche il comandante del Regio Equipaggio di Caccia nonché il vice del “Gran Veneur”, il “grande cacciatore di Savoia”, massima autorità nelle riserve reali, di stanza al castello della Venaria. Nel 1791 alla carica di comandante del regio equipaggio venne nominato il conte Luigi Umoglio della Vernea di Nichelino che mantenne il posto per diversi anni, prima e dopo la parentesi napoleonica.

Con lo sviluppo delle armi da fuoco cambiarono le tecniche di caccia. Non meno cruente quelle in uso nell’Ottocento. Ad esempio si isolava su tre lati una porzione di boscaglia: un’operazione facilitata dal reticolato stradale (le “rotte di caccia”) che attraversava la tenuta di Stupinigi.  La selvaggina veniva fatta confluire verso il lato lasciato libero. All’interno dell’area i cacciatori si appostavano su una specie di palco coperto e all’arrivo degli animali cominciava il tiro al bersaglio. Una facile strage.

DRAGONI E BRACCONIERI

L’abbondanza di selvaggina nella riserva reale attirava nei boschi di Stupinigi anche schiere di bracconieri. A presidio del territorio era piazzata un’agguerrita compagnia di Dragoni Guardia Caccia, acquartierata nel Castelvecchio. A cavallo battevano in continuazione le rotte di caccia con il compito di tenere a bada i numerosi lupi (… presenza documentata ancora per tutto l’Ottocento), ma soprattutto per pizzicare chi cercava di rubare cervi nel parco del re. Un dipinto del Cignaroli nella Sala degli Scudieri ritrae appunto l’arresto di un bracconiere.

Nel 1848 incappò nei Dragoni anche un avo degli Agnelli, il nonno del fondatore della FIAT. All’epoca era proprietario del cascinale/castello di Parpaglia, piantato nel bel mezzo della foresta di Stupinigi. Sorpreso a cacciare nella riserva, si beccò una salatissima multa. Lui fece ricorso, rivendicando il diritto di inseguire la selvaggina sui poderi confinanti. Vinse la causa e poco dopo si prese la soddisfazione di organizzare in loco una maxi battuta facendo strage dei cervi rimasti.

Sotto il regno di Vittorio Emanuele II, “re cacciatore” per eccellenza e per mania, il braccio armato della guardia caccia riprese vigore. La riserva reale allargò di nuovo i propri confini. L’ordine era di sparare a vista sui bracconieri. Tra il 1857 e il 1864 almeno quattro morti ammazzati: Carlo Serra detto Plucchino di Candiolo; Giovanni Rovey di Borgaretto, ferito ad un polpaccio e morto di cancrena all’ospedale San Giovanni di Torino; Giacinto Barone di Orbassano colpito nei pressi del cascinale di Vicomanino e lasciato a terra agonizzante per una notte; Antonio Crivello di Orbassano, colpito da un guardia caccia da distanza ravvicinata.

Ma forse morti e i feriti furono assai di più. E già. Perché, come scriveva nella seconda metà del Seicento Amedeo di Castellamonte primo architetto del duca Carlo Emanuele I di Savoia, «quel cavalier ch’ardirà di affrontare gl’animali più fieri ne’ boschi non temerà nei campi di battaglia l’incontro de’ più feroci nemici, sicché possiam concludere che la guerra sia veramente l’arte de’ principi e che la caccia al cervo ne sia la maestra».