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Dom, Dic
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Ecologismo di facciata

Inchieste
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L’altro giorno ho comprato un paio di jeans e, dentro una delle tasche, ho trovato un cartoncino con sopra scritto: “la filiera di XXX è amica dell’ambiente riducendo l’effetto serra, risparmiando l’equivalente in emissioni di CO2 di oltre 6.000 macchine”.

Allora mi sono chiesto: è realtà o pura strategia di marketing? Si tratta cioè del cosiddetto greenwashing?

Il termine “greenwashing” è nato dall’unione di “green”, aggettivo con cui si fa riferimento alle questioni ecologiche, e “washing”, letteralmente “pulire”, legato in questo caso all’immagine del brand. In sostanza un’azienda che fa greenwashing usa in maniera maliziosa campagne e messaggi pubblicitari (in qualche caso persino iniziative di responsabilità sociale) per coprire l’impatto ambientale, negativo o più consistente del previsto, delle proprie attività o dei propri prodotti.

Il primo utilizzo del termine greenwashing risale alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando alcuni studiosi notarono come gli hotel avessero cominciato a chiedere ai propri ospiti di riutilizzare asciugamani e teli da bagno, sostenendo che la scelta fosse più sostenibile da un punto di vista ambientale rispetto al fatto di cambiarli giornalmente. In realtà la motivazione era di natura puramente economica e aveva a che vedere con un più prosaico taglio dei costi di gestione.

Con il tempo comportamenti di questo tipo si diffusero nei settori più disparati, impegnati nel costruire ad arte un’immagine verde di sé e dei propri prodotti, in ossequio alla rilevanza sociale che aveva nel frattempo conquistato la questione ambientalista ed ai primi studi che avevano dimostrato una maggiore propensione dei consumatori ad acquistare marchi rispettosi della natura. Studiando le abitudini di acquisto dei Millennials e dei consumatori giovani, si è scoperto che il criterio economico non è più né l’unica, né la principale discriminante e che i valori del marchio sono altrettanto importanti. Questo significa, per esempio, che ci sono consumatori che comprano di più brand che sostengono i rifugiati o che hanno packaging plastic-free o, ancora, che hanno all’attivo iniziative contro il gender gap o hanno preso posizione su temi rilevanti per la comunità Lgtbq+.

Tra i tanti modi in cui si può fare greenwashing c’è l’utilizzo di un linguaggio vago e approssimativo o, al contrario, tanto gergale e tecnico da risultare incomprensibile ai non addetti ai lavori. È comune invece il ricorso a immagini suggestive con prevalenza di tonalità di verde o di soggetti naturali che evocano equilibrio ambientale. Nei casi più eclatanti alcune aziende spudoratamente mentono sulle emissioni o sull’impatto ambientale dei propri impianti riportando dati non veritieri nell’etichetta. Questo comportamento spregiudicato non è privo di rischi, considerati i vincoli legali di trasparenza e il danno di reputazione che potrebbe seguire all’eventuale scoperta di informazioni scorrette. Nella maggior parte dei casi, però, si gioca su suggestioni più sottili come suggerire sulla confezione l’accostamento di elementi visivi di natura diversa e partnership con realtà terze note per il loro impegno a difesa dell’ambiente.

È quello che non di rado succede con cioccolato, capi di abbigliamento e caffè che assumono un maggiore appeal per i consumatori sensibili ai temi ambientali se qualcosa lascia intendere che siano prodotti in partnership con enti non profit che, per esempio, assicurano il rispetto di più alti standard nelle coltivazioni o nell’attenzione delle tradizioni e culture locali.

Altri esempi si trovano nel settore dei viaggi in aereo che continuano ad essere venduti dalle compagnie come l’alternativa migliore per l’ambiente rispetto ad altre soluzioni di mobilità. Uno dei meccanismi del greenwashing del resto è proprio indurre il consumatore a pensare che acquistando un determinato prodotto o servizio stia facendo un gesto buono per l’ambiente. Si dimentica però di informarlo sull’impatto complessivo di quella categoria di prodotto o servizio.

Il suggerimento principale per difendersi dal greenwashing è quello di avere spirito critico e osservatore. Essere un consumatore consapevole aiuta ad evitare di cadere nelle trappole. È importante leggere le etichette e le informazioni riportate sui prodotti, per verificare che termini come “green” o “eco - friendly” abbiano davvero riscontro. La rete è di grande aiuto perché permette a chiunque di raccogliere preziose informazioni riguardanti la reputazione dell’azienda. On line ci sono vari siti di consumatori che denunciano il greenwashing, come Goodguide, Il Fatto Alimentare, The sins of Greenwashing, GreenWikia.

Beppe Odetto