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Dom, Dic
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Tigray, guerra dimenticata

Inchieste
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Tra i paesi che ho frequentato in questi anni per lavoro c’è anche l’Etiopia. Sono rimasta sempre nella capitale Addis Abeba, anche se troppo poco tempo ogni volta

. Nonostante tutto, non sono mai mancate le occasioni per scoprire un po’ della cultura locale, per me così diversa dagli altri contesti che già conoscevo. Anche la sua capitale che sta crescendo a dismisura, con zone veramente povere e altre piene di stimoli culturali e costruzioni con un occhio al progresso. Un vero e proprio snodo nel continente se si pensa solo ai voli internazionali che ogni giorno passano di lì.

Quante volte ho fatto scalo lì durante i miei viaggi. Quante volte, quando pensavo di aver capito qualcosa di questa terra e della sua gente, la realtà mi ha fatto ripiombare nella confusione. Con quel fascino di chi guarda al futuro, ma ha i piedi ben piantati nella storia e nella tradizione. Quante volte, mi sono sentita riportare indietro nel tempo partecipando ad una cerimonia del caffè, una delle prelibatezze locali così famosa in tutto il mondo. Ricordo ancora che, contrariamente a quanto accade in altri paesi, per me l’Etiopia resta l’unico paese dove i colleghi ti portano a prendere il caffè fuori nelle pause. Esattamente come mi capitava a Roma o Milano. Ti prendi una pausa, metti la giacca (Addis può essere molto fredda e nebbiosa) ed esci in strada fermandoti al primo caffè. Per mia fortuna, il nostro “angolo” di fiducia è uno di quei caffè e torrefazioni più antiche in città, il Tomoca. Per me, appena ci mettevo piede, era come tornare bambina quando andavo a fare la spesa nelle botteghe con la nonna, tra Nichelino e Borgo S. Pietro. O come guardare una foto dei miei genitori da giovani.

La maggior parte delle volte che sono stata in Etiopia, però, il paese era in “stato d’emergenza”. Pur non avendone alcuna percezione, il paese non era definito sicuro. Occasione che permetteva al Governo di limitare l’accesso ai media in generale e di attivare alcune restrizioni di movimento.

CATASTROFE UMANITARIA

Il mio ultimo viaggio ad Addis Abeba è stato nel 2020, poco prima che il mondo chiudesse per la pandemia. Una visita velocissima, il tempo di partecipare ad una riunione fermandomi meno di quarantotto ore, senza sapere che quello sarebbe stato un addio e non un arrivederci. Non sono più tornata in Etiopia, difficilmente potrò farlo prima di chiudere questa esperienza lavorativa. Il Covid-19 ha picchiato forte, ma quello che rende il paese difficilmente accessibile è la guerra in Tigray. Una guerra scoppiata a novembre 2020 che molti definivano lampo, ma che si è rivelata una vera catastrofe umanitaria. Una guerra piombata sul paese che aveva ricominciato a sperare dopo la fine delle ostilità con l’Eritrea nel 2018, che duravano da almeno vent’anni. Questa pace inattesa è valsa addirittura il premio Nobel per la pace 2019 al neo Primo Ministro etiope Abiy Ahmed, una figura politica sulla quale molti avevano riposto le speranze di dialogo in una terra così complessa. La stessa persona che poche settimane fa è andata al fronte a combattere questa guerra di cui pochissimi parlano, pur essendo una delle più cruente al mondo.

Come ha riportato Caritas in un recente aggiornamento, dopo più di un anno dall’inizio della guerra in Tigray, ormai le regioni coinvolte sono molte di più. Dal nord, dove è partita, si è spinta a sud fino alle porte della capitale Addis Abeba, coinvolgendo l’Amhara e l’Afar. La situazione si è aggravata tantissimo, il numero delle vittime resta imprecisato a causa anche delle pochissime informazioni e le restrizioni all’accesso nelle aree di scontro. Il conflitto si è aggiunto ad altre crisi, con cui l’Etiopia combatte da decenni: conflitti in altre parti del paese, sfollamenti, invasioni di locuste e pandemia di covid-19. La situazione resta altamente imprevedibile, con grandi ripercussioni sui civili che oggi hanno estrema necessità di alloggio e riparo, cibo, acqua, medicinali. Si stima che le persone che necessitano di assistenza umanitaria sono circa 5.2 milioni nel Tigray e oltre 3 milioni in Amhara e Afar inclusi gli oltre 3 milioni di sfollati interni. La fornitura di assistenza umanitaria urgente è ostacolata da vincoli di accesso ancora estesi. Tagli a elettricità e telecomunicazioni in alcune località, blocco dei voli, interruzione dell'approvvigionamento idrico, con conseguente esaurimento dei beni di prima necessità. Si stima che l’80% dei farmaci essenziali non sia più disponibile mentre la maggior parte delle strutture sanitarie non è funzionante a causa di danni e mancanza di forniture e carburante. La malnutrizione è preoccupante.

La Chiesa, attraverso le attività della Caritas locale e di tutta la Confederazione, è impegnata dall’inizio del conflitto per garantire assistenza alle comunità colpite. Il piano di risposta emergenziale ha subito degli adattamenti in base all’evolversi dei bisogni, garantendo soprattutto distribuzioni alimentari e di kit agricoli, alloggi per gli sfollati, ripristino di alcune reti idriche per garantire l’accesso all’acqua, assistenza sanitaria di emergenza.  

Le Nazioni Unite hanno più volte denunciato la situazione. Lo scorso novembre, anche il Vescovo di Adigrat è intervenuto con un appello per chiedere “il cessare dei bombardamenti aerei che hanno ucciso civili e provocato distruzione, di fermare la pulizia etnica”.

Nicoletta Sabbetti

Foto: Caritas Ethiopia Food Assistance