Gli ultimi cinque anni mi hanno portata lontana dalla casa di Nichelino, dove torno sempre volentieri perché ci sono le mie radici, i miei genitori e gli amici di sempre.
La mia casa è stata l’Africa, prima in eSwatini (Swaziland) e un passaggio veloce in Nigeria, poi il Kenya che è stata la base da dove mille altre avventure sono cominciate. Era il febbraio 2017 quando sono atterrata a Nairobi. Ci ero già stata per un’esperienza missionaria con suor Jola, don Richard e altri giovani nichelinesi. La nostra permanenza nella capitale del Kenya era stata davvero fugace, ma ho fatto fatica a riconoscere quel poco che avevo visitato della città pochi anni prima. È quella frenesia delle grandi città africane che è difficile da spiegare, la devi vivere.
Sulla carta mi era chiaro perché ero lì, dal momento che dopo gli studi in cooperazione internazionale e altre esperienze lavorative, Caritas Italiana mi aveva affidato il coordinamento della regione dell’Africa orientale. Avrei lavorato con gli staff della Caritas in Kenya, Sud Sudan, Etiopia, Uganda. In realtà ho avuto molto di più, mi sono ritrovata a girare per tutto il continente, incontrando più storie di quelle che potevo immaginare. Soprattutto, milioni di volti nelle più diverse situazioni. È stata un’esperienza umana e lavorativa che è andata al di là di ogni aspettativa. Negli anni sono riuscita anche a costruire una piccola ma ben salda rete di amici che ancora oggi sono molto importanti perché siamo stati “famiglia” gli uni per gli altri.
Ho avuto l’opportunità di visitare molti paesi, di vivere in molti contesti così diversi tra loro, di condividere un pezzo di strada con tanti.
UN PAESE DILANIATO DALLA GUERRA
Uno dei posti dove sicuramente ho lasciato un pezzo di cuore è il Sud Sudan, il più giovane stato al mondo che a luglio 2021 ha “festeggiato” 10 anni di indipendenza dal Sudan. Un paese dilaniato da anni di guerra, prima per l’indipendenza dal regime di Khartoum e poi precipitato in una guerra civile che ancora non si è conclusa definitivamente, vivendo una pace al singhiozzo nonostante la firma di diversi accordi di pace. Come denuncia l’Ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite (OCHA), oggi 8,3 milioni di persone su poco più di 11 milioni di abitanti necessitano di assistenza umanitaria. È la catastrofe di una crisi complessa dove alla guerra si aggiungono disastri naturali ricorrenti, la difficoltà di costruire tutto da zero sia nell’animo sia nelle cose materiali, nei servizi di base.
Ricorderò sempre l’esempio dei colleghi che con la loro dedizione, umiltà e caparbietà ogni giorno cercano di garantire un supporto alla popolazione provvedendo ai beni di prima necessità. Un piccolo gruppo di persone, la maggior parte dei quali porta con sé i segni delle tante guerre durante le quali sono cresciuti. Molti di loro sono rimasti a vivere in Sud Sudan separati dalle famiglie che sono riusciti a mettere al sicuro in Uganda, grazie alla protezione internazionale. Ancora oggi mi stupisco quando mi ricordano che loro non sanno come si vive in pace, non ne hanno mai avuto l’opportunità. Conoscono bene il rumore delle armi, il silenzio della paura. Quante volte, a conoscenza di scontri armati in aree vicine alla capitale Juba dove si trova l’ufficio principale, attendevo anche per giorni di sapere se erano vivi. Juba sta crescendo ora con le strade battute, i primi negozi e ristoranti, anche se poi di cibo non puoi trovarne una grande varietà. La sera verso le 20, c’è il coprifuoco. Non per evitare gli assembramenti come da noi, ma per proteggersi dalle violenze.
Ricorderò sempre i volti dei moltissimi sud sudanesi che ho incontrato, soprattutto fuori dai confini del paese, rifugiati in Uganda o in Kenya. Infatti, il Sud Sudan conta più di 2,2 milioni di rifugiati e richiedenti asilo (fonte UNHCR) che si riversano tutti sui paesi confinanti, già provati da altrettante crisi. Senza suscitare molto clamore da noi.
RIFUGIATI IN UGANDA
Nel 2018 ho fatto il mio primo viaggio in Uganda per incontrare i rifugiati sud sudanesi accolti negli insediamenti di Palorinya, al nord.
Dalla capitale Kampala ci vuole un intero giorno di viaggio in auto, attraverso paesaggi meravigliosi, per arrivare al fiume Nilo. Palorinya si trova sull’altra sponda del fiume, per attraversarlo c’è solo un traghetto. Per il grande numero di persone che viaggiano con tutti i mezzi possibili e immaginabili, a piedi, in bicicletta, in moto, in auto, l’attesa può richiedere molte ore. Tocca dunque mettersi in coda prima dell’alba, per attraversare il Nilo. Il gruppo che incontrai insieme a padre Moses e all’interprete Malik, mi raccontò di essere arrivato a piedi camminando per una giornata intera, era stato fortunato. Moltissimi mostravano le ferite del conflitto, armi da fuoco o coltelli, alcuni colpiti per aver accidentalmente camminato su bombe inesplose. Le donne, soprattutto, denunciano sempre episodi di violenza brutali. Il panorama di Palorinya oggi non è punteggiato dalle tende che caratterizzano altri campi rifugiati, a ogni latitudine. Ogni nucleo familiare ha infatti provveduto a costruire piccole case di fango e ad avviare la coltivazione di un piccolo orto, per integrare, anche con poche verdure, le distribuzioni alimentari effettuate dalle agenzie umanitarie, che restano comunque difficili e non sempre sufficienti. Nei loro occhi si legge ancora la paura, ma anche la speranza.
Nicoletta Sabbetti
Distribuzione di cibo - Foto CaritasSudSudan