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Dom, Dic
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Il lavoro e le donne

Società e cultura
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Adesso il lavoro manca e pensare che le donne si erano “quasi” abituate e lavoravano.
Ma il “quasi” è d’obbligo perché ci sono problemi pregressi sul tema, comunque irrisolti. Il lavoro dava e dà l’indipendenza economica, ma si è rivelato una strana condanna a un super lavoro. Senza figli non c’è problema … ma se ci sono figli anche le più agguerrite femministe del ’68, le sociologhe più intelligenti e sincere, ammettono: è quasi impossibile conciliare carriera e figli. Perché è anche nata una nuova sensibilità genitoriale, i figli non si possono “sbattere qua e là”, fra nidi, nonne, badanti. I figli hanno bisogno di stabilità, non di madri con neuroni da superwoman in grado di garantire solidità e genialità sul lavoro. I figli hanno bisogno di tenerezza e pace e senso di accudimento in casa.

Comunque molte donne ce l’hanno fatta a conciliare figli e lavoro, senza tragedie.

Il primo lavoro “consentito” fin dall’Ottocento è stato il negozio. Aprire un esercizio commerciale era una soluzione lavorativa accessibile. Allora le abitazioni erano nel retro e i bambini venivano seguiti tra una vendita e l’altra.

Oggi non è più così, avere un negozio è un impegno lavorativo simile ad altri. Si esce la mattina presto, si devono seguire orari, si è imprenditrici di se stesse, più faticoso a volte che essere dipendenti.

Un tempo il negozio era un’attività che rendeva, il marito lavorava in fabbrica e le donne si occupavano di bottoni, vestiti, verdura, scarpe ...


VALERIA

Valeria ha 49 anni, è una bella signora giovanile, la prima cosa che mi dice è questa: “Eccomi qua a quasi cinquant’anni. Dopo aver cominciato a lavorare a sedici, adesso devo chiedere al mio compagno i soldi per il parrucchiere, perché io non ho nessun tipo di reddito. Ho lavorato per vent’anni come impiegata in una ditta di Moncalieri che esportava vini. Poi è fallita, mi hanno detto che esportare vini dalla Spagna non conveniva di più, mi hanno dato la liquidazione e io ho pensato di aprire un negozio di scarpe. Ma le scarpe sono una dannazione: piace la forma, non hai più il numero … hai tutti i numeri, a te sembravano belle e comode invece non le vendi. Insomma mi sono “mangiata” tutta la liquidazione. Ho lavorato vent’anni con i contributi e per la pensione devo aspettare di avere sessantasette anni per avere qualcosa … pazzesco: sperare di invecchiare presto. Cerco naturalmente, sono disposta a lavori e lavoretti saltuari di tutti i generi ma non trovo, solo le rumene trovano, loro si passano i lavori e noi italiane restiamo fuori”.

DOMENICA

Domenica mi mostra un bel vestitino da bambina, l’espressione è serena, soddisfatta. E lei conferma: è sempre stato il mio sogno, un bel negozio di abbigliamento per bambini in centro di Nichelino. Ho aperto ai primi di dicembre e gli inizi sono incoraggianti, spero proprio di restare qui a vendere vestitini”.

La ascolto perplessa, gli occhi sereni danno una sensazione di calma e leggerezza, l’ideale per indurre a comprare vestiti per i piccoli. Le dico le solite cose: “I soldi sono pochi, c’è disoccupazione, poi il negozio ha tante spese, le tasse. A proposito, quanto paga d’affitto?”

Me lo dice e rimango senza parole: una cifra da Via Roma a Torino.

Ma continua: “Io sono ottimista, sto a vedere, nelle cose bisogna crederci, io sono di madre piemontese, di Fossano, e di padre siciliano, sono pratica e testarda, ma anche sognatrice”.

Sì brava, ma per iniziare ci vuole anche un piccolo capitale. “Mio padre, risparmi di famiglia, diverse persone mi sono vicine, io credo che ce la farò, ho sempre fatto la commessa, so fare il mio mestiere. La gente crede che basti appendere la roba alle grucce, invece vendere è una professione. Sono stata licenziata perché dove lavoravo hanno ridotto il personale, ma se uno è abituato a lavorare, a casa impazzisce”.

Esco con una certa apprensione, quasi materna. Chissà, forse ha ragione lei, ma non mi sembrano più i tempi in cui basta l’entusiasmo.

PAOLA

Paola è una signora bruna di cinquant’anni, i capelli sono lisci e ben curati … le chiedo subito se ha dovuto chiedere i soldi al marito per il parrucchiere. “Ahimè purtroppo sì, qualche volta li chiedo anche a mia mamma, che ha una discreta pensione. Pensi che io guadagnavo quasi duemilacinquecento euro; so perfettamente tre lingue, ero la segretaria del “padrone” di una grande fabbrica. Ero spesso in viaggio per lavoro, seguivo contratti a sei cifre. Quando la fabbrica ha chiuso sa cosa mi hanno detto? Cara Paola, l’energia impiegata a produrre gli oggetti che vendiamo costa di più del profitto che ne ricaviamo …”.

Paola con la sua storia personale tocca un problema mondiale, come sempre succede per le storie personali: energia non sostenibile, esubero di merci. Esubero anche della merce forza-lavoro, in questo caso.

“Io sono disposta anche ai lavori più umili pur di avere qualche soldino per me, ma non trovo, è tutto in mano alle rumene”. Le dico che questa storia l’ho già sentita, mi sembra francamente impossibile.

Con Paola c’è un’altra signora, è vestita elegante. Credo che lavori, invece si fa avanti: “Anch’io sono nella stessa situazione, lavoravo nel settore immobiliare, poi tutto è finito. Ho mandato il mio curriculum dappertutto, ne avrò inviati quasi settecento, ma niente. Non mi dispiacerebbe neanche fare la commessa, però non mi vogliono, ho quarantacinque anni e i contratti anche saltuari per le quarantacinquenni non esistono, non convengono, io che sono stata imprenditrice lo capisco”

VERA

Vado dunque a parlare con qualche rumena, voglio sapere se è vero che c’è questo cartello che gestisce tutto il lavoro generico manuale. Mi dicono che non è così, naturalmente, che moltissime sono tornate in Romania. Ma qualcuna ce l’ha fatta a costruirsi una vita qui. Mi presentano appunto Vera, moldava, che riesce a mantenere casa, figlia all’università, macchina.

Vera è uno “scricciolo” vivace, parla un italiano perfetto e allegro, in Italia è riuscita a trovare una sistemazione di cui è fierissima.

Mi hanno detto che ha casa, figlia all’università, macchina. Come fa? “Lavoro in cinque case diverse e certe settimane in sei. Lo so - mi dice ridendo - è un po’ incredibile, per fortuna Dio mi dà la salute”.

Ha iniziato nel 2007. “Mi era scaduto il permesso di soggiorno. Ho bussato alla porta di una signora, ho raccontato tutto, mi ha presa, mi ha subito messa a posto coi libretti e sono potuta restare. E’ una persona particolare, vado due ore tutte le sere, ma anche il sabato e qualche volta alla domenica. Poi ho trovato altre brave signore a Moncalieri. Sono due professoresse in pensione, una è pittrice, l’altra è scrittrice, hanno sempre voglia di parlare. E’ bello, ma io mentre parlo lavoro. Da un anno ho la macchina, quindi non devo più prendere tre pullman come prima. Quanto tempo mi fa risparmiare questa macchina, sia benedetta; posso stare anche un po’ con mia figlia”.

E in tutto quanto riesce a tirare su? “Eh, quasi 1.500 euro al mese”.

Le italiane non trovano lavoro, lo sa? Dicono che voi straniere… Non mi lascia finire: “Le italiane non accettano certi orari e poi parlano troppo … io ho portato un’italiana da una signora perché non avevo più ore disponibili, ma è andata due volte, non si sono messe d’accordo”.

Scappa, volando quasi, è uno scricciolo felice: “Lo scriva - mi dice - io sono molto credente. E’ Dio che mi da la forza”. La forza indubbiamente ce l’ha. Sentendo la sua storia si scopre che ha superato situazioni che noi italiane neanche ci immaginiamo. Ha attraversata confini a piedi e al freddo, la prima sistemazione l’ha trovata in un piccolo alloggio in convivenza con albanesi che andavano e venivano, dormiva con un coltello sotto il cuscino per paura di essere violentata.

Per donne e uomini l’assenza di lavoro significa difficoltà economiche. Ma in tutti si rileva anche frustrazione, noia, senso di totale isolamento. Nelle donne è più marcato questo bisogno di partecipazione sociale. Certo, è stressante lavorare, ma ben di più è alienante starsene tutto il giorno in casa. Un’ansia, un vuoto che porta alla depressione, al ricorso agli psicofarmaci … Le aziende farmaceutiche prosperano, molti farmaci creano dipendenza e chi li progetta lo sa. Qualsiasi dipendenza è paradossalmente fonte di lavoro e commercio.


Qualche giorno il Papa ha parlato di “valori” a un gruppo di imprenditori chiedendo loro di pensare a un’etica compatibile con l’economia, anche a costo di ridurre il profitto d’impresa. Sarà un sassolino nel mare, ma qualcuno deve pur ricominciare a tirarlo qualche sassolino.

Renata Vaschetto