Abbiamo già avuto modo di evidenziare su queste pagine come il suicidio assistito risulti, a nostro avviso, in palese contraddizione con i doveri costituzionali
dello Stato di garantire cure appropriate e di accompagnare la persona nella fase terminale della vita.
Purtroppo sono sotto gli occhi di tutti le gravi carenze nell’erogazione dei servizi sanitari: cure palliative insufficienti, liste d’attesa, assistenza domiciliare inadeguata… In questo cupo scenario, la richiesta di suicidio assistito rischia di configurarsi non come una scelta espressa liberamente, ma come una via di fuga dettata più dalla disperazione, dal venir meno delle risposte che le istituzioni dovrebbero garantire.
Ora però ci vogliamo focalizzare sull’esperienza dei Paesi che, nel corso degli anni, hanno già introdotto normative in materia di suicidio medicalmente assistito o di eutanasia. Perché analizzando l’evoluzione della loro legislazione in materia, notiamo una tendenza preoccupante. Criteri di accesso inizialmente rigidi, concepiti proprio a tutela dei soggetti più deboli, tendono con il tempo ad ampliarsi progressivamente, includendo fasce sempre più vulnerabili della popolazione.
Nei Paesi Bassi ad esempio con una legge del 2002 la pratica del suicidio assistito era consentita solo in presenza di sofferenze insopportabili e incurabili, previa richiesta libera e consapevole e dopo il consulto di medici indipendenti. Dopo vent’anni l’accesso è stato esteso ai minorenni e si discute ormai apertamente della possibilità di autorizzarla anche per le persone “stanche di vivere”, pur in assenza di patologie invalidanti o terminali.
Il Belgio ha seguito un percorso analogo. La legge del 2002 limitava inizialmente l’eutanasia agli adulti. Tuttavia, nel 2014 è intervenuta una modifica legislativa che ha esteso il diritto anche ai minorenni, purché sussistano le condizioni di capacità di discernimento e il consenso dei genitori. È in corso, inoltre, un dibattito per includere tra i beneficiari anche i pazienti affetti da gravi patologie psichiatriche non terminali.
In Canada la legge del 2016 prevedeva inizialmente l’intervento solo in presenza di malattie inguaribili e con una morte “ragionevolmente prevedibile”. Nel 2021 è stato rimosso questo requisito, aprendo la possibilità di accedere alla procedura anche per i pazienti non terminali. È in corso, inoltre, la discussione sull’estensione ai soggetti affetti da disturbi mentali gravi e irreversibili. Il numero di casi di accesso è in costante crescita, al punto da sollevare (finalmente) una riflessione sulla necessità di investire con maggiore decisione nelle cure palliative e nel supporto psicologico e sociale.
Questi esempi - pochi ma ve ne sono altri - ci offrono un’indicazione molto chiara: una volta legalizzata, seppur con le migliori intenzioni, la “morte medicalmente assistita” tende a cedere a richieste sempre più ampie di accesso.
Appare pertanto fondamentale che si affrontino con consapevolezza le ricadute di lungo periodo di tali scelte legislative. La priorità dovrebbe sempre essere posta nella garanzia dei Servizi sanitari e sociali. Solo così si possono offrire alternative concrete all’eutanasia. Legalizzare il suicidio assistito significa imboccare un pendio scivoloso dalle conseguenze irreversibili. Ed è nel cosiddetto “secondo tempo” che si gioca la partita più delicata: quella della tutela effettiva dei soggetti più deboli, come i minori, le persone con disabilità psichiche, chi è affetto da malattie non terminali o vive in condizioni socio-economiche precarie.
Per questo motivo, a nostro avviso, è fondamentale non aprire quella porta!
Giuseppe D'Angelo
UTIM odv Nichelino