C’era una moltitudine quella mattina di Pasqua in piazza San Pietro e anche chi, come me, lo ha visto in Tv
ha capito, che su quella papamobile c’era un Pastore che voleva salutare per l’ultima volta il suo gregge.
Cosa aveva portato lì tanta gente? Il desiderio di vivere qualcosa di storico? Un’emozione? La voglia di una foto? Tra i tanti qualcuno sarà stato spinto anche da questo, ma per la maggioranza vale probabilmente la risposta contenuta nel Vangelo di Matteo, quando Gesù parla di Giovanni il Battista. «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, un profeta».
E papa Francesco un profeta lo è stato davvero, nel senso pieno della parola. Scriveva nella sua prima esortazione apostolica, Evangelii Gaudium: “stare al balcone è vedere la vita che passa. Non serve descrivere con compiacimento amaro e altezzoso gli errori del mondo, forse mette la coscienza a posto, ma non ha nulla di cristiano”. La sua azione pastorale ha avuto come “focus” la volontà di porsi al fianco dell’umanità nelle situazioni più difficili, di mettere il proprio cuore accanto a quello del misero, dell’emarginato, dell’ultimo, per poterlo risollevare. Con Francesco i dettagli sono diventati Vangelo. Hanno raccontano di un Dio che scende, che si fa prossimo, che ama il suo popolo. Non più sacralità che separa, ma segni che liberano. Francesco ha parlato al mondo con la lingua di Gesù: fraternità, prossimità, misericordia. Ha spezzato i recinti del sacro per rivelarne il cuore pulsante: l’amore. Non ha scelto i poveri per ideologia, ma per teologia: nei volti scartati, ha visto Cristo. Ha annunciato un Dio che non giudica, ma stringe a sé con un afflato che irrora senza riserve. Ci ha ricordato, con il sorriso di chi conosce la propria fragilità che Dio non cerca i perfetti, ma i sinceri.
Riportava Francesco le parole sentite dal cardinale brasiliano Cláudio Hummes, francescano, suo amico fraterno, che come motto episcopale aveva l’espressione del Poverello di Assisi “Omnes vos fratres, Fratelli tutti”: “Alla terza votazione di quel pomeriggio, al settantasettesimo voto, quando il mio nome raggiunse i due terzi delle preferenze, tutti fecero un lungo applauso. Mentre lo scrutinio continuava, Hummes si avvicinò e mi disse quella frase che mi è rimasta sempre nel cuore e nella mente: non dimenticare i poveri... E lì ho scelto il nome che avrei avuto da Papa: Francesco”.
Da quell’istante la compagnia dei poveri ha percorso tutto il pontificato di Francesco, che si è fatto loro vicino in innumerevoli forme e gesti. Il Papa ha proseguito il viaggio iniziato «quasi alla fine del mondo» che l’ha condotto sino a Roma, per abbracciare con maggiore intensità tutti gli ultimi della terra camminando con gli “scartati” dell’umanità. Ne è diventato fratello, avvocato, voce, amico, padre.
Una delle immagini simbolo del pontificato di Francesco è il Papa che da solo attraversa una piazza S. Pietro silenziosa e vuota nel tempo della pandemia. Sul sagrato c’è il crocifisso della chiesa di san Marcello al Corso: “non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.
Commenta Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista: “Francesco è stato il Papa di Lampedusa, il Papa del coraggio, una figura salda in un mondo che si sgretola. Ha parlato della fragilità della vita, di ecosistemi, non si è mai rifugiato in una spiritualità astratta. Ha sempre parlato di vita reale”.
Marcello Aguzzi