La prima volta che ho vista defunta una persona che avevo ben conosciuta in vita avevo 8 anni. Mia nonna Adele.
E proprio a nonna Adele devo, tra le altre cose, l’aver fatto esperienza della morte come una dimensione naturale della vita. Il che non significa cancellare il dolore; significa invece il non espungere questa dimensione dalla quotidianità dell’esistenza.
Oggi si fa di tutto per esorcizzare la morte: si evita che un congiunto muoia in casa, il prima possibile si fa il funerale, e della morte si parla quasi più, se non scherzandoci sopra o riducendola a spauracchio di una sera.
Io, invece, ricordo che da bambino, mentre facevo i compiti, ho capito senza saperlo cosa è la “comunione dei santi”, vedendo mia nonna recitare spesso il rosario e i “cento requiem”. Era un modo di preoccuparsi da vivi per l’anima, cioè della salvezza eterna per coloro a cui si era voluto bene in vita e che ci avevano voluto bene. Ricordo come un fatto naturale andare al cimitero, curare le tombe, portare i fiori freschi…era un compito d’amore anche quello. L’1 e il 2 novembre s’andava al cimitero per la celebrazione dei santi e dei defunti. In qualche modo era una festa: si rivedevano persone che ritornavano al paese dai luoghi dove si erano trasferiti, si faceva il giro delle tombe: vedi “quello era lo zio Pietro, quella nonna Quintilia”, ci si fermava davanti alle tombe di persone che si erano conosciute che si ricordavano con simpatia ed affetto… e anche davanti a quella di quel tizio di Siena che sulla lapide aveva fatto scrivere: “qui giace colui che mai a alcuno dette pace... e così nessuno mi viene a trovà”. Invece venivano in tanti per commentare la sua vita. Anche così ho imparato che c’era una comunità ed una comunione con coloro che erano… solo andati avanti. Non è poesia, perché la morte è cruda. A 10 anni coi miei compagni facemmo i conti col dolore che non capisci: la morte di una bambina della mia classe.
Per non tenere la dimensione della morte fuori dell’orizzonte della vita, ricordarsi dei defunti, pregare per loro, visitare le tombe, era ed è un modo per tenere vivo il legame e capire che la vita è davvero un viaggio. Come da bambino, quando torno al paese dei miei natali, passo prima dal cimitero faccio il giro delle tombe: quelle dei miei cari e quelle di tante persone che ho conosciute. A partire da quella della mia compagna di scuola. È un modo per riconciliarsi ogni volta con quello strappo che da bambini si fatica a comprendere.
Gli eventi, come per tanti di noi, mi hanno portato a vivere lontano da quei luoghi. La visita però prosegue; vado a visitare i miei cari, gli amici che qui ho conosciuti e apprezzati, recito una preghiera per loro, li saluto e poi eccomi davanti a lei, l’amore della mia vita, la madre di nostra figlia e non posso né voglio dimenticare gli anni vissuti assieme.
Preghiamo e ricordiamo…Arriverà il giorno nel quale Dio porrà fine ai nostri giorni terreni e vivremo l’eternità alla quale siamo destinati
Marcello Aguzzi