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Dom, Dic
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Un giovane in guerra, pagine di vita tornate d'attualità

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Dal libro “Storie della mia vita” pubblichiamo altri stralci del racconto di Cesare Rasetto, raccolto dalla figlia Piera.

Nichelinese da diverse generazioni, mancato nel 2004, nei suoi ricordi di gioventù restò indelebile il periodo della guerra.  

***

A MILITARE

Dai diciotto ai diciannove anni era obbligatorio il pre-militare: al sabato pomeriggio si andava tutti vestiti in divisa a fare esercitazioni al campo sportivo situato vicino alla stazione, dove oggi c'è via Gozzano.

(…) A diciannove anni e quattro mesi ho iniziato il servizio militare e dopo tre mesi è scoppiata la guerra, il 10 giugno 1940. La cartolina di precetto arrivata a casa intimava di recarsi a Chivasso al distretto, dove fummo tutti destinati agli Alpini e, con un treno completo, inviati a Pinerolo.  

(…) I comandanti ci dissero: "Ragazzi, non fatevi illusioni che sia una cosa breve ... " Il Terzo Alpini era destinato alla Russia, invece, non si sa come e perché, fu mandato il Quarto Battaglione ... ho saputo poi che dei tremila soldati partiti, ne tornarono solo duecento!

Fummo tutti divisi; alcuni andarono in Francia, altri in Jugoslavia, io fui mandato a Torino, aggregato ad un'altra Compagnia. Dopo essere stato in diverse caserme sempre bombardate, arrivai alla Caserma Cernaia e da lì, quando suonava l'allarme, andavamo a rifugiarci all'Arsenale, che era abbastanza sicuro.  Quando ero alla Caserma Cavalli in Corso Vittorio, la notte del 28 novembre '42 fu bombardata e completamente distrutta. Noi militari (quattrocento) che eravamo nelle cantine ci salvammo, mentre le guardie e le sentinelle morirono”.

 

8 SETTEMBRE

Con l'8 settembre '43 e la disfatta dell'esercito cominciarono i guai con i tedeschi. Per tre giorni alla Caserma Cernaia non ci fu più libera uscita ed eravamo tutti in assetto di guerra, con giberna e fucile. L'8 settembre alle 16 l'ufficiale di picchetto ci radunò in cortile e ci disse: "Ragazzi, c'è il disarmo! Posate le armi, si salvi chi può!"

(…) Siccome abitavo vicino, io mi sono dato alla fuga per arrivare a casa. Ma al ponte di Corso Bramante vicino alla ferrovia due SS mi fermarono e mi portarono in caserma, al 92 Fanteria. Avevo la bicicletta e appena mi lasciarono la misi in un angolo; poi mi tolsi la giacca e la bustina, le posai sulla bici e mi rimboccai le maniche. Senza esitazione sono uscito dall'ingresso principale, dove gli ufficiali stavano discutendo fra loro, come fossi stato uno che lavorava lì. La sentinella avrebbe potuto intimarmi l'alt costringendomi a tornare indietro, ma non è successo, così sono uscito.

AL DI LÀ DEL SANGONE

(…)  Andavo avanti adagio, aspettando che facesse buio, finché giunsi quasi al ponte di Mirafiori, ma non osavo attraversarlo per paura che i tedeschi mi vedessero, allora mi spostai verso il Castello "dla Bela Rusin". Erano ormai quasi le 21 e, ricordando che da piccolo accompagnavo le mucche al pascolo lì vicino, conoscevo i sentieri che permettevano di attraversare il fiume Sangone anche a piedi. La sera era chiara, con una grande luna splendente e lì mi sentivo già più sicuro. Davanti al fiume mi chiedevo come fare per non bagnarmi troppo: mi sono tolto calze e scarpe, ho arrotolato i pantaloni sopra il ginocchio, ho messo in tasca le fasce della divisa militare e ho attraversato il Sangone in un punto alto circa 50 cm. Giunto sull'altra sponda ero ancora più vicino a casa! Mi sono rivestito e ho ripreso a camminare attraverso la campagna, in direzione del campanile di Nichelino, sempre guardingo.

Arrivato davanti alla chiesa, suonava la mezzanotte. Fatti pochi passi, col cuore che mi batteva forte, ho bussato al cancello di casa (non c'erano campanelli) e il nostro cane Milord, un pastore nero di taglia grossa, si è messo ad abbaiare. Gli ho detto sottovoce di smetterla: "Sun mi!" è bastato perché si mettesse a scodinzolare, ma dovevo farmi sentire dai miei, perché mi aprissero. Chiamai piano: "Culin! Culin!" e intanto bussavo ... Dopo un po' mio padre è uscito sul balcone: "Chi cerchi? Cosa 'd vole?" "Sun mi, sun mi!" "Ma chi 't ses? Ma chi 't ses?" Allora mia mamma, sempre più attenta, si accorge che il cane non abbaia e capisce che dev'essere qualcuno che conosce, ma mai più avrebbe immaginato che ero io! Sono scesi tutti e due e mia madre, riconosciuta la mia voce, dice: "Ma 't ses mat? Ma co't fase a st'ura sì?"   

SEMPRE IN FUGA

Per me il problema era nascondermi, dal momento che potevo essere considerato un disertore. Venne da me il mio amico Felice Feroglio, anche lui scappato e mi disse: " Sono arrivato e di qui non mi muovo più!" "Ma dove andiamo?" "Nei campi, per le campagne, facciamo i banditi". I nostri genitori, con una fifa del diavolo, ci portavano qualcosa da mangiare. Eravamo vestiti come spaventapasseri (…) I repubblichini avevano affisso i manifesti per avvertire che avrebbero bruciato le case a chi, essendo di leva, non si fosse presentato in caserma.

(…) Una notte alcuni partigiani scendendo dalle colline vicino a Cumiana, incontrano due tedeschi in sidecar e li fanno prigionieri. Il comando tedesco, sapendo che quei partigiani erano di Nichelino, minacciò il sindaco di incendiare il paese se non fossero stati riconsegnati i soldati della Wermacht. Allora il parroco, don Granero, partì in bicicletta con il messo comunale signor Doglione e si recò ad implorare pietà al comando di Stupinigi... Grazie a questo gesto il nostro paese fu risparmiato.

NEL SOTTOSCALA DEL MUNICIPIO

Il 22 novembre '44 alle 6 del mattino mentre uscivo per andare nei campi ad arare con le mucche, mi si avvicinano due tedeschi che mi chiedono i documenti e, dato che non li ho, dicono: "Sei un partigiano, un ribelle!"

Nel frattempo, dopo aver camminato per un centinaio di metri con i tedeschi, loro si fermano a chiedere i documenti a due persone in bici e io salto una siepe con l'intenzione di scappare; quelli sparano due colpi verso di me. Mia madre sente da casa e manda mio padre a vedere ... A quel punto si convincono che io sia un partigiano e mi urlano. "Vieni fuori o ti spariamo!" Mi portano in piazza, dove c'erano già circa cinquanta persone e mi interrogano: "Cosa fai? Di che classe sei?" (Tutti sapevano che ero di leva ed ero sbandato) Intanto arriva il filobus e ci sparpaglia un po'; mi viene in mente di attaccarmi sotto il filobus che era fermo vicino a una garitta di sabbia del Comune, che serviva da rifugio al signor Doglione. Nel trambusto, mi sono infilato nella garitta per nascondermi; c'era una grata di ferro che si toglieva per buttarvi il carbone, che serviva al riscaldamento delle scuole e del municipio. Sollevo in fretta la rete e mi nascondo in mezzo al carbone nella cantina, fra banchi rotti e sporcizia. Tra la paura e il disorientamento sono finito sotto le scale del municipio; sentivo camminare su e giù e pensando cercassero me dicevo: "Signore, se mi prendono, fa che mi ammazzino subito!" Sapevo che rischiavo di essere portato in via Asti e torturato. Mi rivolgevo alla Consolata che era la mia protettrice ed Ella venne in mio aiuto, perché nessuno mi cercò. Quando non ho più sentito nessun movimento, ho cercato di capire dov'ero e ho bussato ad una porta di legno chiusa con catena e lucchetto; non sapevo che ora fosse, ma era già passato mezzogiorno. Bussai ancora con forza, sperando che qualcuno sentisse. Il signor Doglione venne a guardare da una fessura e quando mi feci riconoscere, fu ben lieto di aprire! Disse che tutti pensavano fossi stato portato via e mi suggerì di attraversare il cortile e andare a casa senza passare per la strada. Quando arrivai, c'erano in cortile almeno dieci donne intorno a mia madre; dicevano che mi avevano visto, ma nessuno sapeva cosa mi fosse successo. Appena mi videro, rimasero sbalordite: chi pregava, chi piangeva, chi mi faceva festa...

RASTRELLAMENTI

(…) Era il 28 ottobre '44 c'era stato un rastrellamento e molte persone per rappresaglia furono portate in Via Asti: già alle 6 del mattino una camionetta piena di gente era pronta davanti al Municipio. In una cascina chiamata del Palazzetto, vicino a Via Galimberti, un ragazzo (si chiamava Ribotta) si era rifugiato nel pagliaio e quando i tedeschi gli intimarono di uscire, non rispose, così incendiarono il pagliaio e l'incendio si propagò al fienile, alle tettoie; nessuno poté andare a spegnerlo finché tutto fu ridotto in cenere, di lui non si seppero più notizie; ma quasi sicuramente non si salvò.