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Quando Nichelino era un paese agricolo di 4.000 abitanti

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Cesare Rasetto era discendente di un’antica famiglia di Nichelino e qui era stato uno degli ultimi contadini.

Mancato nel 2004, qualche anno prima la figlia Piera aveva trascritto diversi suoi racconti ed ora il nipote Marco li ha raccolti in un volumetto.

Oltre ad essere un prezioso ricordo di famiglia, il volumetto contiene inedite testimonianze sulla storia di Nichelino della prima metà del Novecento.  Pubblichiamo alcuni stralci significativi con l’intento di proseguire il racconto di Cesare Rasetto in un successivo articolo dedicato agli anni della sua gioventù e della guerra.

L’INFANZIA
“Sono nato il 15 agosto 1920 a Nichelino, che a quel tempo contava insieme a Stupinigi circa quattromila abitanti, in Via Giusti n. 4.  La casa, detta "ciabot", apparteneva a mio padre Nicola, che l'aveva ereditata insieme ai terreni circostanti, alla morte di suo padre Giovanni, nel 1910. I Rasetto risiedevano a Nichelino già da molti anni, infatti, sia l'attuale cimitero che il palazzo comunale furono costruiti su terreni di proprietà dei nostri antenati.

Appena nato mi hanno messo in una cesta, perché non c'era ancora la culla, che di solito si chiedeva in prestito ai parenti; poi mio padre andò a prenderla dai suoi genitori. In quei giorni si era rotta la scala di legno esterna, che portava al piano di sopra, dove c'erano la camera da letto e il granaio, perciò bisognava aspettare che il falegname la riparasse. Era stato chiamato il signor Vercelli, ma era molto indaffarato e non sapeva quando avrebbe potuto venire, così si utilizzava la scala a pioli e si entrava dalla finestra che era sempre aperta. I miei genitori mi portavano su con loro, nella cesta del pane. Mi hanno raccontato che a volte i neonati anziché nella culla, venivano sistemati in un cassetto tolto dal comò.

Era la sera della festa di Ferragosto e l'indomani mio padre andò a registrare la mia nascita in comune. Mia madre era stata assistita dall'ostetrica, signora Curletto e la notizia del mio arrivo fu accolta con grande gioia dai parenti Rasetto e Tamagnone.

Mio padre Nicola aveva sempre lavorato in campagna, come i suoi antenati, ma insieme ai fratelli esercitava anche, con regolare licenza, il commercio del bestiame ai mercati e alle fiere del Piemonte. Aveva sposato nel settembre 1919 Marianna Tamagnone, anche lei nativa di Nichelino, figlia di Tamagnone Giovanni e Pennazio Marianna entrambi contadini, che gestivano una cascina nei dintorni”.

GIOCHI
“A tre anni ricordo che avevo una carriolina per andare a prendere l'erba nell'orto e portarla alle galline. In campagna allora c'era l'abitudine di comprare ad un bambino un agnellino o un cane come compagno di giochi. Io ricevetti un agnellino che mi piaceva tanto, ma appena fu cresciuto cominciò a darmi testate, così un mattino mio padre lo portò al mercato per venderlo. Mia mamma me lo fece vedere dalla finestra per l'ultima volta e poi mi misi a piangere ...”

A SCUOLA
“Ho frequentato l'asilo, all'inizio non ero tanto contento, ma poi mi abituai e ci andavo volentieri. La scuola materna era in Piazza Barile, in un vecchio edificio demolito poi negli anni '60. Quasi tutti i bambini e le bambine di Nichelino andavano all'asilo: in tutto eravamo una cinquantina ed eravamo assistiti da tre suore di San Gaetano. Là feci le prime amicizie: Giuseppe Vaschetto, Giovanni Corino, Cesare Sola, Francesco Morsetto, Dante Godino e altri. 

In prima elementare eravamo in quaranta con una sola maestra: la signorina Mattalia di Pinerolo, che arrivava con il treno tutte le mattine alle 8 e ripartiva alle 17. La giornata scolastica aveva il seguente orario: dalle 9 alle 12 e dalle 14 alle 16. Mi ricordo che sulle copertine dei quaderni erano disegnati gli animali: lo scoiattolo, il pavone, il coniglio, la gallina, il merlo o la gazza. Per scrivere usavamo penna e calamaio e mi ricordo che c'erano diversi tipi di pennino, anche uno fatto come la Mole Antonelliana.     

(…) Tanti bambini dopo la scuola andavano a giocare, ma io dopo aver fatto merenda (pane e formaggio o salame) dovevo aiutare a fare i lavori. Solo quando veniva buio, si rientrava per cena: si mangiava di nuovo la minestra o caffelatte o riso al latte o polenta e latte e frutta di stagione (mele, pere, uva, castagne). Dopo cena era il momento di fare i compiti e studiare, poi andavo a dormire”

SAN MATTEO
“La festa del paese era il 21 settembre, giorno di San Matteo, il patrono di Nichelino. Nella piazza a sinistra del Municipio (dove abitavano il medico condotto, il messo comunale e il farmacista) si piazzava la giostra delle catene e intorno al Comune il tirasegno e i giocolieri. Al posto delle catene a volte veniva la giostra dell'altalena, con due barche che dondolavano verso l'alto finché si mettevano in verticale ma non mi attraevano, perché io soffrivo di vertigini. In Piazza Barile vicino alla chiesa c'era il ballo a palchetto, ma in seguito alle proteste perché non si poteva ballare durante le funzioni religiose e la processione non doveva vedere il ballo, la festa del Santo e quella civile furono separate e stabilite in due domeniche successive. La sera venivano i parenti della Buffetta a vedere la festa e si fermavano a salutarci. Mia mamma offriva qualche dolce (torcetti e biscotti) e un po' di vino bianco o rosso, così si chiacchierava fino alle 23,30 quando si sentiva suonare l'ultima canzone per il ballo. La sera precedente e tutto il giorno prima della festa, la banda di Nichelino e i priori passavano nelle case e nelle cascine ad offrire l'immagine di San Matteo (il Sonetto) e un biscotto, così tutti facevano un'offerta che veniva portata in chiesa. Quando c'era la processione, dopo il rito, la banda musicale andava a fare la bicchierata in chiesa. Ricordo il gobbo che batteva forte il tamburo con il compagno che suonava i piatti: si chiamavano "Carlin el gobb" e Castoro, erano dipendenti del Comune, facevano i becchini del cimitero e avevano anche il compito di spazzare le strade e tagliare le siepi

(…) Il lunedì di San Matteo dietro il municipio si svolgeva la fiera delle migliori bestie, che venivano premiate. I paesani portavano mucche, vitelli, cavalli e pollame che erano esaminati dalla giuria, formata dalle persone più importanti del paese: sindaco, veterinario, rappresentanti dei contadini e dei commercianti. I premi consistevano in una coccarda con diploma, una gualdrappa e a volte una somma in denaro (dieci o venti lire, che allora erano già abbastanza)”.

 

 

LAVORO A TEMPO PIENO

“Dopo la quinta elementare per me è cominciato il lavoro a tempo pieno: pascolo, casa, mercato. Una volta mio padrino, zio "Gianin", mi ha portato con lui a Moncalieri all'osteria "Al Moro", vicino al mercato del bestiame e avevo mangiato il merluzzo. All'uscita mio padre era arrabbiato perché non gli avevo chiesto il permesso (avevo 11 anni), ma mio zio rispose che era stato lui a chiedermelo, perché mi vedeva quasi gelato, così non ha più avuto niente da dire. Mi ricordo che quando accompagnavo mio padre al mercato avevo sempre tanto freddo. Mio zio era un uomo molto buono, aveva figli già grandi che andavano per conto loro ed era contento di portarmi con sé perché ero ancora piccolo. Mi voleva molto bene”.

(Continua)