14
Dom, Dic
97 New Articles

Don Federico racconta i giorni dell'alluvione del '51

Persone
Typography
  • Smaller Small Medium Big Bigger
  • Default Helvetica Segoe Georgia Times

La raccolta dei quadri ex voto presso il santuario della Consolata a Torino non è solo una straordinaria testimonianza di fede,

ma anche della storia di tanta gente.
La bella rivista del santuario ha dedicato un interessante articolo di Lorenzo Ferracin e Gianlorenzo Boano (foto di Andrea Aloi) al ricordo dell’alluvione del Polesine di settanta anni fa. C’è anche il racconto del canonico Don Federico Crivellari (sacerdote dal 1969 ed ora vice rettore del Santuario) che ha trascorso la giovinezza a Nichelino.

La foto del quadro ex voto pubblicata si riferisce alla vicenda di un’altra famiglia Crivellari del Polesine, ma il contesto era lo stesso. Ecco la testimonianza di don Federico (a destra nella foto).

***

«Facevo in quei giorni la seconda elementare, abitavo a Tornova, una frazione del comune di Loreo, in provincia di Rovigo, nel delta del Po, in una cascina dove vivevano varie famiglie; la casa oltre al piano terra aveva un piano superiore che serviva anche da granaio. Il mio papà faceva il falegname, ma era partito di là perché il suo padrone aveva fatto fallimento e aveva chiesto di venire in Piemonte; in quei giorni lavorava come carpentiere al cantiere del traforo di Pino Torinese. Con i miei due fratelli e mia sorella eravamo rimasti a casa, mia madre andava a raccogliere le barbabietole da zucchero.

L'acqua arrivò verso sera, eravamo a giocare nel cortile della cascina quando abbiamo sentito un rombo, siamo corsi fuori e abbiamo visto come un muro di acqua che avanzava rotolando e su di essa galleggiavano i pagliai che l'acqua aveva strappato dai campi e trascinava di corsa. Il ricordo di quel rumore, di quel tuono che rotolava mi è tornato all'improvviso in sogno molti, molti anni più tardi, risvegliato dal rumore che faceva la Dora in piena sbattendo contro il ponte del Balon. Spaventati da quella massa d'acqua, per noi bambini altissima, siamo corsi a casa dove la mamma ci chiamava preoccupatissima, mentre con i fratelli più grandi cercava di salvare il possibile dalla cucina al piano terra. Nel prendere qualcosa dalla cucina mio fratello si era ferito una mano e sanguinava, e ricordo quel sangue che gocciolava mentre salivamo la scala per rifugiarci al piano di sopra. L'acqua continuava a salire, ma si fermò una spanna sotto l'ultimo scalino. Siamo rimasti lì fino a tardissima notte.

Intanto cominciavano ad esserci alcune barche, l'acqua aveva continuato a crescere e tu vedevi solo un grandissimo lago con quei pagliai che si muovevano e continuavano ad andare sull'onda. Noi eravamo a circa due chilometri dall'argine dell'Adige: il Po prima di arrivare al delta si avvicina abbastanza all'Adige. Sono cominciati i soccorsi con barche da parte dei vigili e di volontari. Noi abbiamo acceso qualcosa sul tetto per farci vedere nel buio della notte. Ci hanno visti e sono arrivati con una barca abbastanza piccola e sono entrati dal vano delle scale dove c'era una finestra e noi siamo saliti sopra questa barca, mamma, io e i fratelli. Ci hanno trasportato fino agli argini dell'Adige, che erano alti e fuori dal pericolo dell'inondazione. La mattina ci hanno messo in contatto con gli zii che abitavano in un paese vicino sulla sponda sinistra dell'Adige e siamo stati ospitati da loro. Come si fa nei casi di necessità, ci si restringe tutti e siamo rimasti lì.

Papà, saputo che il Po aveva rotto gli argini, era partito e dopo quattro giorni ci aveva raggiunti e aveva chiesto che ci dessero la possibilità di venire in Piemonte. Arrivati in treno a Porta Nuova abbiamo proseguito con un pullman fino al piccolo comune di Colleretto Giacosa nel Canavese. Siamo arrivati al mattino in una struttura che faceva da colonia vicino a un Santuario. Io avevo sempre dormito. Mia madre, per svegliarmi, mi scuoteva chiamandomi: "Federico, Federico...". Io ho aperto gli occhi, ho guardato fuori dalla finestra e ho visto la neve. Non l'avevo mai vista prima. Lì si vedevano anche le montagne. Bellissimo! Una sorpresa che ancora risento!

Siamo rimasti lì per un po' di mesi e ci hanno dato tutto perché non avevamo più niente. Mio padre, tornato al lavoro, ci veniva a trovare nei fine settimana. Eravamo una cinquantina di persone in quella colonia. In quel santuario ho ricevuto la Cresima. Mio fratello, che aveva sedici anni, lavorava lì attorno nella costruzione di strade; mia sorella faceva la sarta. Noi piccoli andavamo a scuola. Da Colleretto Giacosa siamo stati trasferiti a Favria, a una trentina di chilometri da Torino, dove vivevamo dentro a casermette, gli uomini divisi dalle donne e dai bambini. E lì ho imparato il piemontese, ho dovuto impararlo: quante volte sono stato etichettato: "Venetasso, stai zitto! Non capisci niente!" Mi sono poi riscattato perché giocavo bene al calcio. Da Favria ci siamo poi tra-sferiti a Nichelino, alla periferia Sud di Torino, in una casa in costruzione, il primo anno senza acqua e corrente elettrica. Ma lì abbiamo trovato molta solidarietà, soprattutto in parrocchia. Papà e i fratelli hanno trovato lavoro e così siamo poi rimasti sempre a Nichelino».