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La Nichelino della mia infanzia

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Orazio Ottaviani, poeta e scrittore, è nato e vive a Nichelino.

Un estratto di un suo scritto “Nichelino della mia infanzia” ci racconta la vita della nostra città all’inizio degli anni ’30 del secolo scorso. Quasi cento anni fa! Un altro mondo!

Ottaviani, classe 1929, è autore di sette pubblicazioni tra racconti e poesie (anche in piemontese). Modernissimo di idee e pensiero, è persona di profonda cultura, costruita nel corso della sua vita grazie ad un’incessante curiosità: tenendo conto del passato pensa al presente e al futuro.

***

Inizio anni 30: Nichelino era un piccolo paese di circa cinquemila abitanti. Lo scorrere della vita, come nei paesi limitrofi, aveva radici antiche. Erano poche le strade asfaltate, ai lati delle vie principali del nostro piccolo paese vi erano i fossi di scolo dove ora ci sono i marciapiedi. Merita qualche cenno il normale traffico dell’epoca, cioè l’andare e venire dei carri degli immondezzai e degli ortolani di Nichelino, che al mattino presto andavano a Torino e ritornavano intorno a mezzogiorno. Poi c’erano gli operai che andavano in bicicletta a lavorare negli stabilimenti del capoluogo. Con le loro caratteristiche grida di richiamo, comparivano i venditori ambulanti e i piccoli artigiani, che con una modesta attrezzatura offrivano agli abitanti la loro opera.

C’erano lo stagnaro, l’arrotino, l’ombrellaio, il venditore di scope, lo straccivendolo con un grosso sacco che quando lo vedevo fuggivo, avevo una paura boia che mi mettesse nel sacco e mi portasse dall’orco. Ogni anno passavano gli spazzacamini con l’apposita attrezzatura sulle spalle: erano in coppia, un uomo adulto e un ragazzino magrissimo, i loro vestiti e la pelle erano ricoperti da uno strato di fuliggine, dal nero viso del ragazzino si evidenziavano gli occhi.

Nei periodi della transumanza i pastori con l’aiuto dei cani invadevano con le loro greggi la nostra via Torino. Poco prima di Natale facevano la loro comparsa i suonatori di cornamusa abruzzesi con i loro caratteristici costumi da pastori.

Altri personaggi, più o meno folkloristici, percorrevano le nostre strade. C’era il dispensatore di musica con un carretto trainato da un asinello, sul quale vi era una pianola. In questo marchingegno, simile ad un pianoforte verticale, inseriva una scheda traforata e, mediante una manovella, il nostro “musicante” dava l’avvio ad una musichetta che diffondeva i motivetti in voga, poi, con un piattino, passava tra gli occasionali ascoltatori a raccogliere le offerte o a vendere, per pochi centesimi, i testi delle canzoni.

Vi erano pure cantanti girovaghi, non sempre intonati, che andavano di cortile in cortile ad esibire il loro “talento canoro”; al termine della performance dai balconi pioveva qualche monetina, anche quello era un modo per campare. Non devo dimenticare il dispensatore di fortuna che aveva un pappagallo su un trespolo; il volatile ad un suo comando estraeva con il becco da una cassetta il “pianeta” (foglietto) della fortuna. Con pochi centesimi l’acquirente aveva la possibilità di conoscere il suo “roseo” futuro leggendo “l’infallibile pianeta” ed i numeri da giocare al lotto “quasi” sicuri.

I saltimbanchi istallavano ogni tanto il loro minicirco all’aperto in un angolo del gioco delle bocce di qualche osteria. Alla sera lo spettacolo circense era assicurato: erano esibizioni modeste, noi ragazzini assistevamo estasiati alle giravolte degli acrobati e alle gag dei pagliacci ridevamo a crepapelle.

Non mancavano i mendicanti e gli zingari, di tanto in tanto compariva una strana coppia, con un grosso orso con la museruola che li seguiva incatenato. Quando si fermavano, si formava un capannello di curiosi. Allora l’uomo, che aveva un piffero, intonava un motivetto, l’orso come sentiva quella musichetta si rizzava sulle gambe posteriori e si metteva a ballare. In estate il gelataio con il suo triciclo trasportava una mini gelateria ambulante e quando si fermava agitava una campanella. Quello scampanellio era il richiamo gioioso per noi bambini, un po’ meno per le nostre mamme che non sempre avevano i soldi per appagare la voglia di gelato dei loro pargoletti.

Alcuni giorni prima della ricorrenza patronale di San Matteo una guardia municipale, seguita da un suonatore della banda musicale, andava di casa in casa, per annunciare l’inizio dei festeggiamenti. Il suonatore eseguiva un motivetto, a quella sonatina si affacciavano i padroni di casa e il vigile consegnava il sonetto che inneggiava al Santo e un biscotto; tutta la mia attenzione era rivolta a quel biscottino.
In quel nostro piccolo mondo con radici antiche il futuro era già presente nelle rare automobili. Si intravvedeva ancora qualche traccia delle vecchie carrozze che andavano scomparendo. I rarissimi autocarri iniziavano a sostituire i carri trainati dai cavalli che erano ancora predominanti. Piccoli aerei dal vicino campo di aviazione di Mirafiori, si alzavano in volo e facevano acrobazie nel cielo sopra le nostre teste, alcuni aerei con le ali di tela, ormai obsoleti, sostavano in fondo agli hangar. In via Cuneo transitava uno strano trenino di fattura ottocentesca che collegava Torino con Saluzzo.

Ben visibile si profilava il futuro che oggi viviamo. Alla fine degli anni venti, un carrozzone con motore, chiamato autobus, diede inizio al servizio pubblico che collegava la Piazza del Comune con Piazza Bengasi a Torino. Ricordo quando posarono i pali metallici per sostenere la linea di alimentazione elettrica delle prime filovie.

Ho voluto descrivere per grandi linee com’era questo nostro piccolo mondo, a ridosso del Po tra il Sangone e la Chisola, per rendere vivo quel passato che a poco a poco vidi scomparire. Vorrei anche far risentire i profumi, gli odori, rivedere le acque cristalline che scorrevano nei torrenti ricchi di pesci, far respirare l’aria non inquinata, così limpida che si vedevano le Alpi stagliarsi nette sullo sfondo azzurro del cielo, come oggi quando spira un forte vento.

Lascio alla fantasia dei lettori immergersi in questo mondo non molto lontano dall’attuale, ma lontanissimo nei costumi e nel vivere quotidiano dei nostri giorni. C’erano personaggi che si distinguevano dal resto della popolazione per il loro comportamento o per alcune peculiarità che li caratterizzavano: c’erano “Teresun”, innamorata del nettare di Bacco, “Puet” strano personaggio che viveva in una baracca tra i boschi in riva al Sangone: vuotare i fiaschi di vino era la sua passione. Molto nota poi era la prolifica famiglia “Pulega”, il Re le aveva fatto costruire, vicino al ponte sul Sangone, una capiente casa di legno, perché era la famiglia più numerosa del Piemonte, aveva anche la nomea di essere la più acerrima nemica dell’igiene, non solo del Piemonte.

Orazio Ottaviani