Se avrò ancora tempo e paglia cercherò di far maturare le nespole che porto nel cuore…
Mi spiego: ho 93 anni. Se il buon Dio volesse aggiungerne addirittura ancora qualcuno, da esimio “disonesto”, li prenderei al volo per tentare di scrivere l’ultimo mio libricino senza peli sulla lingua. Potrebbe avere un titolo del tipo “Se Piazza Bengasi potesse parlare…”. Io la farei parlare quella mia piazza, dove nacqui e dove vissi la mia giovinezza. Al tempo clou avevo 15 anni e fu il momento in cui la guerra finì. I bombardamenti aerei erano cessati, ma lasciarono il posto a massacri del dopofascismo. Sì, su quella piazza giustiziarono anche senza processo.
Capisco perché persone molto capaci con un patrimonio di ricordi terribili non hanno preso la penna per scrivere. Non vollero rischiare la pelle. Allora, nei mesi dell’immediato dopoguerra, bastava gridare dietro a uno “tu eri fascista” che te lo ritrovavi cadavere al lato della strada. “Ammazza questo che era un fascista!”; la gente diceva che la pietà era morta o semplicemente accoppava chi non gli era amico.
Vi narro solo due piccole storie riservandomi di ritornarci sopra spendendo qualche riga in più. In piazza Bengasi, dietro l’edificio del dazio, c’erano già quattro palazzi di grande mole e non furono colpiti dalle bombe. All’ultimo piano del primo edificio con la mamma Caterina, Catlinìn, abitava un certo Beppe (non sono nomi di fantasia) che era una guardia ferroviaria. Più volte al giorno e durante la notte aveva l’incarico di percorrere a piedi i binari della ferrovia che portava verso Moncalieri e poi verso Asti, Alessandria e verso il sud. Nella settimana dopo la Liberazione a sorvegliare, non solo sul Lingotto ma su tutta la città di Torino c’erano i partigiani che l’avevano occupata, guidati dal comunista Giovanni Roveda (che diventerà sindaco) e altresì da un democristiano che si chiamava Catti. Ebbene la mattina del 28 aprile (che è anche il giorno in cui fu fucilato Mussolini a Dongo) qualche ragazzo munito di mitra, rubato in una caserma, sparò una serie di raffiche verso la finestra d’angolo del quinto piano. Fu colpita la Catlinìn, forse alla testa, e gli inquilini lo seppero dall’odore del cadavere a otto giorni del decesso. Io per strada mi ero imbattuto in un corpo senza vita, crivellato di colpi: era quello del figlio Beppe.
IL RICORDO PIÙ ORRENDO
E le “tre maestre” di via Finalmarina?
Le insegnanti in realtà erano due, la terza era la madre di una di loro. Avevano perso la casa nei bombardamenti ed avevano occupato un’aula della scuola elementare di via Finalmarina angolo via Genova. Anche la scuola era stata tagliata in due da una bomba d’aereo. A un certo punto qualcuno lì in piazza, accanto al dazio, comincia a dire che quelle donne della barriera erano collaborazioniste del fascio. Non era vero: semplicemente erano rimaste senza casa e si erano rifugiate nei locali della scuola. Si fomenta la gente che va a prenderle nell’aula. La folla le maltratta, le rapa a zero, le denuda, le vernicia di minio rosso e poi le fa camminare con il pugno chiuso cantando “bandiera rossa”. Sfilano da corso Spezia fino a piazza Bengasi. Qui di fronte al dazio, davanti a casa mia, stramazzano a terra. Qualcuno della folla col mitra entra nella cascinetta dei miei al numero 416 di via Nizza e costringe mio zio Pinotto ad imbardare il cavallo, attaccarlo al “tamagnone” (alias, carro agricolo a quattro ruote), a caricare le tre poverette moribonde, con oscena processione, e a portarle davanti agli uffici Fiat Lingotto che erano rimasti ancora in piedi nonostante i bombardamenti. Qui verranno scaraventate giù come stracci, in quella depressione che una volta era un giardinetto e poi lasciate morire. Probabilmente esalarono l’ultimo respiro nel tiro a segno che durò finché i loro corpi furono dilaniati.
Per me fu quello il momento esatto che mi cambiò la vita e capì che l’educazione alla violenza subita nella scuola fascista si stava tragicamente ritorcendo nell’apoteosi della guerra, dei bombardamenti e della vendetta. Era la festa del Genio del Male, cioè del diavolo. Le due maestre e quella madre fatte morire dalle botte, tra le ingiurie più infami, mi sono rimaste indimenticate e sono l’oggetto del mio pregare per le loro anime.
È il ricordo più orrendo che mi porto nella mente di quei giorni. Preghiamo veramente che il 25 Aprile sia per sempre il Giorno della Pace. Il 10 giugno ’40, giorno in cui Mussolini dichiarò la guerra, resta il giorno orribile del Genio del Male. Assolutamente!!!
Paolo Gariglio